“Disperso”, quella parola che non permette di mettere la parola fine su una tragedia

Nell’82° anniversario della ritirata di Russia e della battaglia di Nikolajewka “Radio 24” ha dedicato una trasmissione alla storia di Enrico Barbieri di Bagnone

I resti dell’Armir in ritirata verso ovest (da Wikipedia)

“Che mestiere fa tuo papa?”; la domanda che il professore fa a tutti gli alunni della classe arriva anche a me, figlio di un alpino partito per la Russia subito dopo la mia nascita e non tornato dalla guerra.
“Non so – rispondo – mio papà non c’è”.
“Come non c’è?” riprende burbero il professore. “Non è ancora tornato dalla guerra”.
“Allora è morto?” incalza l’insegnante. “No”. Spazientito, il professore quasi grida: “Allora devi dire che è disperso!”.
Inizia così il racconto di un bambino, figlio di un alpino disperso in Russia durante la tristemente famosa battaglia di Nikolajewka, trasmesso lunedì 3 febbraio scorso su “Radio24” nella trasmissione “Matteo Caccia racconta”.
L’occasione di raccontare la storia nasce nel 2012, quando Edamo Barbieri, già sindaco di Bagnone, da tempo Diacono della nostra diocesi, decide di ripercorrere a piedi il percorso fatto dagli alpini in ritirata dalla Russia, da dove anche suo padre Enrico, come molti altri, non è più tornato.

Reparti italiani durante la ritirata dal fronte del Don (da Wikipedia)

Scrisse un articolo proprio qui sul Corriere Apuano e, ora proposto alla redazione di “Radio24”, è stato scelto ed è diventato una storia nella trasmissione giornaliera dell’emittente radiofonica nazionale, un format narrativo che usa lo storytelling per raccontare storie vere.
Il racconto ruota intorno alla parola chiave “disperso”, un termine che non permette di mettere la parola fine su una tragedia. Non è morto, non si trova il suo corpo, non si sa dove sia. Allora potrebbe tornare, un filo sottilissimo di speranza che, nell’inconscio più profondo, a dispetto dell’evidenza e della realtà, non si è mai definitivamente spezzato. È una parola che continua in modo incredibile a martellare nel cervello e, soprattutto, nel cuore.
Ecco un estratto del testo con il racconto di Edamo e letto nei giorni scorsi nel corso della trasmissione radiofonica.
In casa non avevo mai sentito pronunciare quella parola – disperso – e non sapevo cosa volesse dire e quando chiedevo alla mamma dov’era papà, con delicatezza mi ripeteva sempre “vedrai che ritorna”.
Tutto ruotava attorno a questa attesa, anche perché tutti i ragazzi del paese avevano un papà e solo io non potevo farmi forza della figura paterna. L’unica volta che vidi mio padre fu quando mamma mi portò, quando avevo appena 11 mesi, a Cuneo dove papà era in partenza sui convogli che l’avrebbero portato in Russia.
Fu la prima e ultima volta che egli mi vide. Le notizie che a fine gennaio del 1943 si ricevettero furono che i nostri soldati in Russia erano stati travolti.
E così inizia la drammatica attesa del ritorno nelle famiglie di giovani, anche padri, partiti per la guerra, specialmente nella lontana Russia. Alcuni che ce l’hanno fatta: smunti, laceri, smagriti nella tragica ritirata; rientrati alle loro case, sono subito circondati dai famigliari degli altri per avere notizie di loro cari non tornati, ma senza avere risposta.
Dalle autorità non arrivano comunicati e dopo anni di prigionia comincia a tornare a casa qualche reduce, anche questo subito subissato da domande purtroppo senza risposte. Dopo un certo tempo arriva la comunicazione ufficiale alla mamma: “Nella tragica ritirata di Nikolajewka suo marito risulta disperso il 31 gennaio 1943”.
Quella parola comincia a martellarmi nel cervello e così comincio a prendere coscienza del suo significato: non è morto, non si trova il suo corpo, non si sa dove sia. Allora potrebbe tornare.
Ma passava il tempo e papà non tornava, anzi, quando avevo appena 12 anni anche la mamma se ne è andata. Lei per sempre, sepolta nella nera terra del piccolo cimitero del paese di Malgrate, ma per mio padre rimaneva quel tenue filo di speranza, alimentata dalla parola “disperso” che, man mano crescendo in età, assumeva significati sempre diversi.
E così comincia la lunga attesa di un ritorno, andando a caccia di notizie dai pochi reduci della zona. Mi dice Gino: “Sì, l’ho incontrato prima della ritirata; io facevo l’autista e portavo il rancio anche al fronte, sulla linea del Don, e nella ristrettezza del cibo alla sua batteria ne davo un po’ di più. Quando al comando sono cominciate a circolare notizie sulla ritirata, gli dicevo di smettere di esercitarsi con la tromba (era trombettiere del Reggimento) e imparare a guidare il camion, che presto avremmo affrontato la ritirata. Poi la disfatta e più nulla”.
Altro reduce, Pierino, mi racconta: “Con un altro paesano l’abbiamo affiancato al termine della tragica ritirata nella battaglia finale di Nikolajewka: guidava un mulo che trainava la slitta con un tenente e un alpino gravemente feriti. ‘Dai’, gli abbiamo detto, ‘vieni con noi che ormai siamo salvi’, ma lui, deciso, ci ha risposto che non voleva abbandonare i feriti ad una morte sicura, e così l’abbiamo salutato. Dopo due anni di prigionia, noi siamo tornati a casa”.
Però, un filo sottilissimo ma tenace resisteva, tanto che, dopo molti anni, nell’inconscio più profondo, a dispetto dell’evidenza e della realtà e contro ogni speranza, non si era ancora definitivamente spezzato e, nel 2012, mi ha spinto a calcare, pregando, a piedi insieme ad altri alpini, per 200 chilometri dal Don a Nikolajewka, quella terra dei girasoli, percorsa da miglia di disperati in cerca della salvezza, moltissimi dei quali morti e sepolti dai contadini, al disgelo, dove si trovavano.
Ogni libro che parlava e ancora oggi parla della ritirata di Russia l’ho acquistato e letto e quella parola, “Disperso”, continua in modo incredibile a martellarmi nel cervello e soprattutto nel cuore.

Edamo Barbieri