
Alcune riflessioni a poco più di due mesi dall’apertura della Porta Santa

Dal prossimo 24 dicembre – vigilia del Santo Natale – con l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, ci incammineremo in un importante percorso storico, culturale e religioso: il Giubileo, che ci accompagnerà per tutto l’anno 2025 e si concluderà ufficialmente il 6 gennaio 2026.
Sarà questo un periodo di grazia e conversione del cuore in cui, anche attraverso le celebrazioni che verranno proposte sia a livello mondiale che diocesano, saremo chiamati a rafforzare la nostra fede. Unitamente a questo, nel prossimo Giubileo, la volontà di Papa Francesco ci porta a riscoprire il tema della speranza. Il catechismo della Chiesa Cattolica insegna che questa (con la fede e la carità) è una delle tre virtù teologali e che pertanto “anima e caratterizza” l’agire morale del cristiano.
Per noi battezzati il termine speranza non intende una semplice realizzazione di un sentimento o una normale aspettativa di vita bensì un nome e un volto, Gesù. È Lui infatti che con la Sua vita, morte e risurrezione ha aperto anche a noi la possibilità di quello che il Sommo Poeta descrive come “un attender certo della gloria futura”.
Il significato di queste parole può spronare l’uomo contemporaneo perché possa comprendere che “avere speranza” significa concepire che ci sarà un qualcosa di “tanto grande e tanto importante” che soddisferà la nostra volontà di “vedere” il Padre: la vita eterna. Al giorno d’oggi molte volte rischiamo di essere presi dalla fretta, di disperderci nel tram-tram della quotidianità e persino di farci confondere dal frastuono mediatico.
Questo porta ad una visione cieca e spesso superficiale della vita che si esprime in termini egoistici ed estrania dalla dimensione religiosa: è così che l’uomo del nuovo millennio si ritrova ad abitare quella che il filosofo Bauman definiva “società liquida”. Una società nella quale assistiamo alla perdita dei valori fondamentali e che ha come conseguenza il dimenticarsi anche di essere “buoni cristiani”.

Riprendendo le parole del titolo di un’esortazione apostolica di San Giovanni Paolo II si potrebbe dunque dire: che fine hanno fatto i Christi fideles? Che fine ha fatto l’essere cristiano che, grazie alla speranza, può scoprire l’immagine del Dio vivente? Per evitare l’individualismo e riscoprire il nostro senso di essere comunità cristiana serve essere “radicati” nella speranza perché ci possa sostenere come pellegrini “verso la patria comune”. In questo percorso è importante non solo “affrettarci” ma anche imparare a seguire Cristo, salvezza del mondo.
Essere Christi fideles significa allora riscoprirsi uomini e donne di speranza, uomini e donne che non hanno perso la fiducia e che si impegnano con tutte le loro forze in quello che fanno. Ma essere Christi fideles vuol dire anche tornare a sentirsi parte di quel gregge di “pecorelle” che ha ben presente come Dio sappia rincuorare ed essere padre premuroso che ci dona un volto di bontà e misericordia.
Il problema del nostro tempo infatti è intrinseco nel gregge che, seppur formato da persone battezzate, ha perso la concezione del proprio “sacerdozio”, abbandonando la volontà di sentirsi “parte attiva” nella Chiesa perché spesso “è più comodo” restare nella mediocrità che non ci scuote.
Per assaporare al meglio il prossimo Giubileo dobbiamo allora assumerci l’impegno di ripensare alla speranza cristiana come stile “del fine” della nostra vita, che potrà realizzarsi attraverso l’incontro definitivo col Cristo. “Sic nos amantem quis non redamaret” – chi non riamerebbe chi ci ama in questo modo? Questa è la vera speranza per tutti! Questo è il proposito per vivere “cristianamente” il prossimo Giubileo: peregrinantes in spem – pellegrini di speranza.
Fabio Venturini