
Oto Melara, Intermarine, Arsenale, Fincantieri: i venti di guerra portano investimenti e lavoro nel comparto militare della Spezia e della Val di Magra. Ma la nuova occupazione non cancella gli aspetti etici e i dubbi su un modello di sviluppo incapace di generare imprenditorialità e vera ricchezza.

Sul mondo spirano venti di guerra sempre più forti. E per osservarli non occorre andare troppo lontano. Le correnti determinate dalla nuova stagione di conflitti spazzano con tutta evidenza anche il comprensorio lunense. È del 15 ottobre l’annuncio che Leonardo (ex Finmeccanica), principale azienda produttrice di armi in Europa, partecipata al 30% dallo Stato italiano, e la tedesca Rheinmetall, altro colosso del settore degli armamenti, daranno vita a Leonardo Rheinmetall Military Vehicles. La joint venture realizzerà la mega-commessa da circa 20 miliardi di euro ricevuta dal governo italiano per rinnovare il parco carri armati dell’Esercito.
La nuova società avrà sede legale a Roma e sede operativa a La Spezia, nello stabilimento ex Oto Melara, storico produttore di carri armati di proprietà Leonardo, che solo due anni e mezzo fa aveva trattato per la vendita della storica fabbrica spezzina. Ma la situazione mondiale è radicalmente cambiata, e di conseguenza i piani della Difesa. E così l’ex Oto Melara, già leader europeo nella produzione di sistemi per la difesa navale e terrestre e per lo sviluppo del munizionamento guidato, attraverso un consorzio paritetico con Iveco Defence Vehicles (principale azionista la Exor della famiglia Elkann-Agnelli), va ad assumere una nuova centralità.
A confermarlo sono i lavori di restauro annunciati ad inizio ottobre: si parte con la bonifica dall’amianto e la ricostruzione della copertura del reparto C, tre grandi capannoni utilizzati o come deposito e magazzino dopo la fine della Guerra Fredda, quando uno dei grandi polmoni occupazionali di Spezia, Lunigiana e Val di Vara vide ridurre il proprio ruolo strategico e le proprie attività produttive.

Ma nel mirino di Leonardo ci sono anche le aree dell’attigua ex centrale termoelettrica (sono stati avviati colloqui con Enel), a testimonianza della crescita di un’impresa per il quale la proprietà, nel medio periodo, prevede il raddoppio della produzione e un deciso incremento occupazionale, che porterebbe l’ex Oto Melara a tornare ad essere il più grande serbatoio occupazionale del comprensorio. Già oggi Leonardo conta 1.190 dipendenti diretti, con un aumento del 30% rispetto a tre anni fa. L’età media dei neoassunti, fanno sapere dall’azienda, è di 31 anni e il 70% ha conseguito una laurea scientifica.
Agli sviluppi di Oto Melara vanno poi sommati l’espansione della Divisione Navi Militari di Fincantieri, al Muggiano, e il progetto “Basi Blu” da oltre 300 milioni di euro per adeguare il porto militare agli standard Nato e portare all’Arsenale fino a 14 unità maggiori della Marina Militare, compresa una portaerei; un intervento, quest’ultimo, che prevede lavori a darsene e moli e dragaggi fino a 12 metri di profondità in spazi che parte della cittadinanza da tempo chiede siano rilasciati ad usi civili.

Ma la corsa agli armamenti lambisce anche la Val di Magra. La scorsa estate Leonardo ha raggiunto un accordo con lo storico , di proprietà della famiglia Colaninno, oramai del tutto dedito alla produzione militare. Nel sito sul Magra a breve distanza dalla foce, Intermarine e Leonardo produrranno per la Difesa italiana cinque cacciamine del valore di 1,6 miliardi di euro. Il nuovo hangar costruito ad hoc ai bordi della piana di Marinella, nonostante l’impatto paesaggistico (un gigante parallelepipedo alto 27 metri) in pochissimi mesi è stato approvato dal Comune e realizzato. La nuova commessa permetterà di raddoppiare gradualmente i 200 addetti già presenti e di garantire l’espansione dell’impresa per i prossimi 15 anni. Insomma: per il territorio il clima bellico è un’opportunità di tanta e buona occupazione diretta, senza contare le ricadute sull’indotto. Ma assieme al lavoro viaggiano questioni etiche ineludibili che difficilmente possono essere liquidate dicendo che le armi non prodotte a Spezia sarebbero prodotte comunque altrove.
Una riflessione collettiva sul tema, però, stenta a decollare. E non mancano dubbi nemmeno sulla tenuta di un modello di sviluppo fondato sulla grande industria pubblica, soprattutto quella militare dalla quale, lo dimostrano gli studi economicile esperienze del passato, non nasce nuova imprenditorialità privata in grado di generare nuove attività e occupazione capaci di riassorbire il contraccolpo del ritiro dello Stato quando le condizioni mutano. E’ stato così alla Spezia alla fine della Guerra Fredda, potrebbe accadere ancora quando, speriamo presto, si tornerà a respirare un clima di pace.
(Davide Tondani)