
Lavoro: i dati nascondono ingiustizie e divario con il resto dell’Europa
Il tasso di occupazione è il più basso dell’intera area Ue. Precariato diffuso e ancor più incentivato; 25 anni di sempre maggiore flessibilità hanno ridotto i salari ma non hanno fatto uscire l’Italia dalla stagnazione

I dati diffusi dall’Istat sull’occupazione del mese di luglio sono molto positivi: cresce ancora il numero degli occupati (+ 56.000 rispetto a giugno) e diminuisce quello dei disoccupati (-107.000). Le percentuali sono da record: 62,3% il tasso di occupazione totale e 6,5% quello di disoccupazione (mai così basso dalla crisi del 2008).
Sono fuori discussione le dimensioni della crescita: in termini tendenziali il numero di occupati è aumentato di 490.000 unità rispetto a 12 mesi fa. Sono dati che alimentano la narrazione di un momento favorevole per il Paese, grazie alle politiche attuate da un governo che sta “facendo la storia”.
Ma una lettura più approfondita suggerisce un atteggiamento meno autocelebrativo. In primo luogo, dopo più di due anni di crescita dovuta alla ripresa post-covid, il tasso di occupazione complessivo del 62,3% rimane il più basso dell’intera area Ue. Anche il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni (66,3%) è lontano dalla media europea del 75,4%; peggio ancora l’occupazione femminile: tra i 20 e i 64 anni lavora solo il 56,5% delle donne a fronte del 70,2% dell’Europa.

È italiano il record europeo dei giovani che non studiano e non lavorano, circa 1,5 milioni nella fascia 15-29 anni: il 15% del totale, un dato che pone l’Italia seconda in Europa, dietro solo la Romania. Ribaltando il punto di osservazione e andando a vedere i dati della disoccupazione, i risultati sono altrettanto sconfortanti.
Un tasso di disoccupazione così basso è determinato dal fatto che sempre meno persone cercano lavoro. Gli inattivi, cioè coloro che il lavoro non lo hanno e non lo cercano sono aumentati di 73.000 unità rispetto a giugno e rappresentano il 33,3% della popolazione in età da lavoro.
C’è poi l’aspetto qualitativo del lavoro. I contratti precari sono diventati il rapporto di lavoro più diffuso: secondo l’Osservatorio del precariato dell’Inps, l’82,8% dei contratti di lavoro attivati nel 2023 erano a tempo determinato.
Nel primo trimestre del 2024 i nuovi rapporti di lavoro attivati con contratti temporanei sono stati il 75,7%. Se si pone la lente sull’universo giovanile, il 34,4% dei contratti chiusi nel 2023 con lavoratori sotto i 30 anni aveva come durata massima un mese. Sempre secondo l’ente previdenziale, la retribuzione media dei 3,5 milioni di dipendenti under 30 di aziende private nel 2023 non superava i 13mila euro.

La risposta al dilagare di precariato e sfruttamento della forza lavoro, negli ultimi due anni si è tradotta in provvedimenti tesi a penalizzare ancora di più il lavoratore. Dopo avere alimentato la narrazione dei disoccupati seduti sul divano a godersi le provvidenze pubbliche, nella primavera 2023 il governo ha rimesso mano al Decreto Dignità del 2018, che aveva tentato di porre un freno alla proliferazione dei contratti a termine, imponendo che quelli che raggiungevano l’anno di durata facessero immediatamente scattare l’assunzione a tempo indeterminato.
Con l’intervento del governo Meloni, i datori di lavoro possono nuovamente ottenere prestazioni a tempo determinato fino a due anni di durata. Inoltre, il Parlamento sta per dare il via libera alla liberalizzazione totale dei contratti di lavoro in somministrazione (gli interinali), largamente usati nei settori produttivi meno qualificati.
Se fino ad oggi i lavoratori interinali non possono superare una soglia percentuale all’interno dell’impresa, con la nuova legge le aziende potranno avere il 100 per cento dei dipendenti non legati ad alcun vincolo contrattuale con l’azienda nella quale lavorano.
Il contratto di somministrazione negli ultimi due anni è stato attivato per circa un milione di lavoratori l’anno, dalle grandi aziende come Stellantis, che dice di non licenziare mentre a giugno non ha rinnovato il contratto di oltre 3 mila interinali, alle Aziende Ospedaliere che assumono operatori sanitari interinali, invece di bandire concorsi.
Sta poi per rientrare in auge, col disegno di legge Calderone, il ricorso ad una sorta di dimissioni in bianco: secondo la previsione legislativa in discussione in Parlamento, in caso di assenza ingiustificata oltre il termine previsto dal contratto o superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica l’obbligo di comunicazione telematica delle dimissioni.
In questo modo, denunciano alcuni sindacati, il datore potrà licenziare il lavoratore (o la lavoratrice) oralmente, per poi accusarlo dopo 5 giorni di essersi assentato senza giustificazione.
La svalutazione del lavoro che da anni è in corso ha effetti evidenti anche sui livelli retributivi, i più bassi d’Europa secondo le statistiche OCSE: lavoro precario e a basso costo che non serve ad uscire dalla stagnazione dell’economia italiana – ce lo insegnano 25 anni di sempre maggiore “flessibilità” del lavoro – ma che elimina ogni sicurezza e umilia la dignità del lavoratore.
Davide Tondani