
Frate cappuccino e sacerdote, il missionario pontremolese racconta la sua vocazione e la scelta dell’Africa. “P. Daniele insegnava: qui ci sono le bestie feroci, ma non bisogna temere gli animali grossi bensì quelli più piccoli”

San Francesco aveva dedicato un capitolo della Regola alle missioni ed era ancora in vita quando i missionari francescani avevano iniziato a viaggiare dando il via ad una grande storia di missionari, arrivata a contare, ancora oggi, Missioni in tutto il mondo.
In dialogo con don Graziano Galeotti nella serata dedicata a don Adriano Filippi, padre Antonio Triani si racconta nella “sua” Pontremoli, dove è rientrato dalla missione in Centrafrica per un breve periodo di riposo.
Prima la laurea in medicina, poi la decisione di entrare in convento, infine la decisione presa per la vita: partire per la missione, “una scelta – spiega – maturata dopo una riflessione molto lunga, scaturita anche dall’aver conosciuto alcuni missionari di passaggio anche nel nostro convento”.
Un ricordo particolare per p. Daniele, partito per l’Africa da Pontremoli dove ha lasciato una traccia ancora oggi viva nella memoria locale, e morto tragicamente mentre cercava di salvare alcune persone in difficoltà nelle acque di un fiume.
“Il mio impegno nell’ordine – continua p. Triani – era già finalizzato alla Missione, ma fu dopo un incontro a Pontremoli con mons. Sergio Govi, vescovo cappuccino in Centrafrica, che decisi di impegnarmi anche come medico perché l’aspetto sanitario nelle terre di missione mi aveva colpito molto”.
P. Daniele era solito ripetere, infatti, che “in Africa ci sono le belve feroci, ma non bisogna avere paura degli animali grossi, bensì di quelli piccoli”; su tutti, le zanzare che inducono la malaria, la mosca tse-tse che porta la malattia del sonno, altre mosche che inoculano negli occhi parassiti che portano alla cecità.
Chi come noi vive nell’Occidente del mondo ha difficoltà a capire a fondo che cosa significhi essere medico di missione tra i villaggi dell’Africa profonda, sprovvisti quasi di tutto. Pochi anche quelli che per noi sono i più comuni strumenti per la diagnostica, altri quasi del tutto assenti (nella Repubblica Centrafricana esiste una sola Tac, da poco, nella capitale Bangui; non ci sono apparecchi per l’emodialisi: il più vicino è in Camerun!), e allora la medicina è soprattutto clinica, un po’ “alla vecchia maniera”.

Per non parlare poi delle cure: ci sono i dispensari, qualche ambulatorio (come a Wantinguera, anche grazie agli aiuti arrivati da Pontremoli), ma c’è soprattutto tanta buona volontà da parte dei (pochi) medici che si arrangiano come possono, anche dovendosi misurare con serie difficoltà burocratiche, come quelle necessarie per sdoganare i farmaci che arrivano dall’estero.
Eppure le malattie ci sono: la malaria certo, ma anche l’AIDS e i tumori (e in tutto il Paese non esiste un centro per la chemioterapia). E poi le malattie infantili: i bambini sono tanti, la mortalità è alta, non si muore di fame ma c’è molta malnutrizione che non di rado porta alla morte. Quando – racconta p. Triani – nel novembre 2015 Papa Francesco nella capitale Bangui aprì la prima Porta Santa di tutto il Giubileo, rimase colpito dalla povertà del Centrafrica, in una situazione aggravata da una guerra terribile. Per i bambini volle che fosse aperto un centro pediatrico, ma anche questo va avanti con grandi difficoltà. Come amava ripetere sempre don Adriano, in Centrafrica c’è bisogno di tutto, anche di persone di buona volontà che si mettano a disposizione.
“Rimasi molto colpito dal sì immediato
di don Adriano all’invito del vescovo
ad andare a Wantinguera”

“Lui – sottolinea il missionario cappuccino – sapeva fare di tutto, un po’ come gran parte dei missionari del passato, attenti a promuovere anche la crescita materiale delle comunità, arrivando a costruire materialmente scuole e ospedali. Non possiamo trascurare la parte spirituale della persona, ma nemmeno trascurare quella materiale. Del resto Gesù è venuto a promuovere l’uomo per intero”.
In terra di missione spesso ci si trova davanti ad un Cristianesimo giovane, che a volte convive con atteggiamenti non proprio ‘ortodossi’, dunque con la consapevolezza di quanto ancora lungo dovrà essere il lavoro da compiere.
“Avevo conosciuto don Adriano a Bassone – racconta p. Triani – poi io sono entrato in convento a Parma e ci siamo persi di vista per un po’. Dopo, durante i miei soggiorni a Pontremoli, ho iniziato a frequentare le parrocchie dove era stato destinato”.
In uno di questi incontri, nel 1995 p. Triani rimase molto colpito dal “sì” con il quale don Adriano accettò l’invito dell’allora vescovo Binini di assumere la responsabilità della neonata parrocchia di Wantinguera. “Il suo entusiasmo mi colpì molto e in Centrafrica abbiamo continuato a parlare e confrontarci, soprattutto via radio, unico strumento a disposizione per parlare tra noi e con l’Italia”.
Seppe della sua morte improvvisa da p. Bruno Biagi, frate missionario di Scorcetoli: “ancora oggi – conclude con emozione – nel giorno dei Defunti andiamo a pregare nel cimitero dove don Adriano è sepolto con tanti altri sacerdoti e religiosi”.
Testimoni, cuori ardenti, in cammino nel mondo.
Paolo Bissoli