Dal Lago Santo il grido di vittoria echeggiò per  le convalli

Ottant’anni fa l’impresa dei nove partigiani del battaglione “Picelli”. Guidati da “Facio”, assediati per ore, respinsero ogni attacco dimostrando a tutti che il terribile nemico si poteva sconfiggere

La grande lapide in marmo posta sul rifugio Mariotti per ricordare i protagonisti della Battaglia del Lago Santo

Si racconta che in quei giorni di marzo del 1944, nel Caffè degli Svizzeri a Pontremoli un ufficiale tedesco mise a tacere alcuni fascisti locali che stavano sbeffeggiando i partigiani. “Mi risulta – disse – che quelli che voi chiamate banditi, qualche giorno fa hanno avuto la meglio su un forte gruppo di nostri soldati ben organizzati. Quelli sì sono uomini che dovrebbero combattere al nostro fianco!”.
Si riferiva alla Battaglia del Lago Santo, combattuta fra il 18 e il 19 marzo: da una parte nove partigiani guidati da Dante Castellucci “Facio”, dall’altra alcune decine di tedeschi e un gruppo più numeroso di fascisti della GNR.
Il battaglione “Picelli”, di stanza nell’alta valle del Verde, era comandato da Fermo Ognibene “Alberto”. Da Parma, comando di appartenenza, aveva ricevuto l’ordine di incontrarsi al Lago Santo con un’altra formazione della XII brigata “Garibaldi”, il battaglione “Griffith”. Il 14 marzo la partenza: il grosso del “Picelli” (una trentina di uomini) avrebbe raggiunto la Val Parma dall’alto Pontremolese, mentre il gruppo di “Facio” sarebbe passato da sud per compiere un’azione alla centrale di Teglia.
“Alberto” e i suoi non sarebbero mai arrivati perché caduti nell’imboscata della XMas a Succisa il 15 marzo. Nemmeno il “Griffith” salì al Lago Santo, visto lo spiegamento di forze nemiche nella valle.
All’oscuro di tutto, i nove del “Picelli” nel pomeriggio del 17 marzo raggiungono il rifugio e aspettano. Ma il giorno dopo si trovano circondati: un ufficiale tedesco intima loro la resa. Viene ucciso con un preciso colpo alla testa: iniziano così venti ore di battaglia e più volte tutto sembra perduto, ma ogni volta “Facio” riesce ad infondere coraggio agli otto compagni.

Il rifugio Mariotti al Lago Santo in una foto dei primi anni del Novecento

Gli assedianti lanciano numerose bombe a mano attraverso le finestre ma nessuna esplode all’interno perché i partigiani le afferrano e le rigettano contro i nemici. Una tattica che è “Facio” il primo ad adottare mostrandola ai suoi uomini.
Sarà la mossa vincente. Nella tarda mattinata del 19 marzo tedeschi e fascisti si ritirano: torneranno con mortai e armi pesanti, ma i partigiani non ci saranno più. Eludendo i soldati rimasti di guardia riescono a fuggire, uno dopo l’altro: sono tutti salvi. Sulla strada del ritorno saranno informati della morte di “Alberto”.
Una grande lapide in marmo all’ingresso del rifugio ricorda ancora oggi, trasmettendo intatta l’emozione, quell’evento ben presto divenuto leggenda. Per la prima volta il terribile esercito tedesco, supportato dalle formazioni fasciste, era stato sconfitto da un gruppo di partigiani, pochi e male armati. Per questo “Il grido di vittoria echeggiò per le convalli”, sollevando l’animo e destando il coraggio della popolazione. Così “insorse la nuova Italia”.

Il 15 marzo 1944 A Succisa l’imboscata
della “Decima” ai partigiani del “Picelli”

Tra i castagni, poco fuori dell’abitato di Succisa Villavecchia, un cippo ricorda i tre partigiani che il 15 marzo di ottant’anni fa diedero la vita per difendere la ritirata del grosso del battaglione “Picelli”, caduto nella imboscata tesa dai militi della XMas.
La formazione si era mossa il giorno precedente dalla zona di Cervara per raggiungere il Lago Santo su ordine della XII brigata Garibaldi di Parma. Il buio proteggeva il cammino e Succisa era la prima sosta dove riposare e attendere la sera per proseguire. Una giovane donna del paese, visti i partigiani, avvisò la XMas di stanza a Pontremoli e in fretta i militi raggiunsero e circondarono la zona. La trentina di patrioti non avevano scampo e il “Picelli”, fra le prime formazioni di tutto il nostro Appennino, avrebbe cessato di esistere.
Il comandante, Fermo Ognibene, decise di sacrificarsi per salvare gli altri. Piazzata una mitragliatrice alla base di un grosso castagno, affiancato da Remo Moscatelli di Teglia e dal sardo Isidoro Frigau, riuscì a resistere pochi minuti ma sufficienti perché il resto della formazione si potesse mettere in salvo.
Altri due partigiani erano stati feriti: li curò il parroco, don Quinto Barbieri aiutato da alcune donne. Il sacerdote in seguito venne picchiato, portando i segni della violenza per tutta la vita.

(p. biss.)