Israele e Palestina: sembra davvero utopia pensare a “due popoli, due stati”

Gli “Accordi di Abramo” appaiono il fattore scatenante della guerra. E i Paesi arabi ricchi suggeriscono di non confondere gli affari con la politica

Effetti dei bombardamenti a Gaza (Foto N. Saleh)

“Non mischiamo il commercio con la politica”, ha dichiarato il ministro del Commercio degli Emirati Arabi Uniti (EAU), dopo lo scoppio della guerra fra Hamas e Israele. Mentre tutto il mondo occidentale, dagli Usa, alla Gran Bretagna, alla Germania, alla Francia, all’Italia mostra insofferenza di fronte alla risposta, considerata esagerata, di Israele in seguito alla carneficina operata da Hamas non si può non sottolineare lo strano silenzio del mondo islamico.
Ci sono, è vero, i lanci di missili degli Hezbollah ai confini col Libano, c’è la minaccia degli Huti dello Yemen nel mar Rosso per bloccare il commercio internazionale nel canale di Suez. Ma non ci sono le reazioni islamiche che si potevano temere. I motivi stanno dentro gli accordi di Oslo e i più recenti accordi di Abramo.
In questi accordi c’è un totale silenzio sulla questione palestinese dichiarando di fatto la fine della sua importanza ideologica nelle politiche del mondo arabo. Vale la pena ricordare le tappe del disimpegno progressivo nei confronti della questione palestinese.
A Camp David, nel 1978, sotto la spinta di Jimmy Carter, Sadat per l’Egitto e Begin per Israele firmarono due accordi: uno riguardava la regolamentazione delle relazioni tra Israele e i Paesi confinanti, l’altro la pace tra Israele e l’Egitto. Si istituiva anche una autonoma autorità auto-disciplinante in Cisgiordania e nella striscia di Gaza e non si parlava di Gerusalemme.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Arafat giudicò negativamente la risoluzione, in quanto essa non affrontava la questione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Gli accordi di Camp David sono stati un grande passo verso la pace, ma di fatto soltanto l’Egitto riconosce lo Stato d’Israele.
Intanto i palestinesi, non vedendo riconosciute le proprie aspirazioni nazionali cominciarono una serie di proteste che portarono ad una specie di sollevazione popolare (la Prima Intifada) che si protrasse fino al 1993.
È in questo periodo che nasce il Movimento della Resistenza Islamica (Hamas), di stampo islamista, nato da una costola della Fratellanza Musulmana e caratterizzato fin da subito da una intransigenza totale nei confronti di Israele. Ma in questi anni le posizioni dei vertici palestinesi e israeliani si avvicinano.
Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli Accordi di Oslo che, sulla base della soluzione a due Stati, avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. In base ad essi si ha la divisione dei Territori palestinesi in tre aree (A, B e C) e la creazione di una amministrazione autonoma, l’Autorità nazionale palestinese (ANP), che sulle aree A e B esercitava un certo grado di sovranità.
L’ascesa per la prima volta al governo in Israele di Netanyahu nel 1996, assieme ad altri fattori, finì però per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli Accordi e, di conseguenza, per assestare un duro colpo al processo di pace.
C’è da dire che se la soluzione era nelle speranze della gran parte dei due popoli, le frange estremiste, Hamas e Jihad islamica, che hanno nel loro dna la distruzione di Israele, e gli ultraortodossi israeliani, che vogliono un Israele dal Giordano al mare, fanno di tutto per affondare ogni segno di tolleranza. Dal 2000 al 2005 la seconda Intifada è stata più sanguinosa della prima.
In Cisgiordania si costruisce il muro di separazione tra i territori e si intensificano gli insediamenti dei coloni israeliani rendendo sempre più difficile la possibilità di due popoli, due Stati. In una situazione sempre più complessa e drammatica nei Territori palestinesi, stranamente migliorano i rapporti tra Israele e i Paesi arabi.
Nel 2020, sotto l’impulso di Trump, c’è la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan. Forse è stato proprio l’annuncio, nell’ambito degli Accordi di Abramo, della firma degli imminenti trattati tra Israele e Arabia Saudita a scatenare la sciagurata azione di Hamas e della Jihad islamica ai confini di Gaza il 7 ottobre.
Negli “Accordi’ ogni Paese ha firmato un memorandum di intesa bilaterale con Israele per approfondire la cooperazione su diversi fronti. In tutti i documenti c’è una linea comune che riconosce l’importanza di mantenere e rafforzare la pace in Medio Oriente e nel mondo attraverso la comprensione reciproca e la coesistenza.
Naturalmente ogni paese coinvolto ha ristabilito o stabilito relazioni diplomatiche con Israele, segnando un cambiamento sensibile di rotta rispetto alla tradizionale ostilità del mondo arabo e islamico nei confronti di Israele. A questi si aggiungono l’Egitto e la Giordania che avevano già siglato trattati di pace con Israele e condividevano i confini con lo Stato ebraico. In questi trattati si parla di cooperazione economica, di cambiamenti climatici, di acqua, di sicurezza, di cooperazione scientifica.
È totalmente ignorata la Palestina. Non importa quante vittime si consumano, non importa che si distrugga la vita di centinaia di persone che vivranno nel deserto di case distrutte, di ospedali inesistenti, di mezzi di carenza di cibo… Non solo Israele non vuole due Stati, ma ora i palestinesi sono anche un problema per gli stessi Paesi Arabi.
È utopistico pensare, come stanno spingendo gli occidentali, a due popoli e due Stati, date le condizioni interne dei rapporti tra israeliani e palestinesi e questo contorno di nuove relazioni tra Stati che vogliono una nuova geopolitica.
È difficile pensare alla possibilità di una convivenza pacifica. Il messaggio del ministro degli EAU è chiaro: “Non mischiamo il commercio con la politica”.

Giovanni Barbieri