Tra Levanto e  Sarzana la storia di Suor Celeste, figlia  di Matteo Vinzoni

Una vita senza vocazione iniziata nel Monastero di Santa Chiara per la terza figlia del celebre cartografo genovese che lavorò anche a Groppoli. Morto il padre nel 1773, la donna chiese invano l’annullamento della professione di fede

L’edificio dell’antico convento di Levanto oggi

Suor Celeste Vinzoni, terza figlia di Matteo Vinzoni, è una figura che ha sempre attirato la curiosità dei biografi del celebre cartografo, da Undelio Levrero (1882-1964) autore di un saggio pubblicato nella rivista municipale di Genova del 1932, al prof. Massimo Quaini (1941-2017).
Maggiori notizie di lei sono contenute nelle ricerche del dott. Filippo Pittiglio autore del volume Il monastero delle Clarisse a Massa, e, soprattutto la sua Tesi di Laurea (1991-92), “I monasteri femminili della Diocesi di Luni – Sarzana dalla visita apostolica del 1584 alla loro soppressione o riduzione a conservatori fine sec XVIII”, consultabile presso la Biblioteca Niccolò V di Sarzana.
Bianca Maria Vinzoni, poi Suor Celeste, nacque l’8 febbraio 1725 probabilmente a Genova nella parrocchia di San Giacomo di Carignano dove presumo sia stata anche battezzata, come la prima figlia Angela Lucrezia, e la quinta Maria Antonia, rispettivamente il 26 aprile 1721 ed il 15 settembre 1728.
Da una lettera del 11 novembre1739, dell’allora capitano Matteo Vinzoni, inviata da Novi Ligure al segretario Sartorio per chiedere le spese di soggiorno che gli erano dovute oltre allo stipendio, apprendiamo che Suor Rosa era entrata in convento con Maria Antonia.
Questa, divenuta cieca per il vaiolo, era stata “mandata in Varese sotto la cura di quel medico che mi ha dato una tal qual certa speranza di guarirla dalla disgrazia che soffre d’essere per causa de vaioli restata cieca”, ed assistita, mettendo in condizioni la famiglia di affrontare spese non previste.

Elemento di un vano finestra dell’ex convento di Sarzana

Dalla documentazione conservata nell’Archivio Vescovile di Sarzana, si comprende che le due sorelle nel 1739, rispettivamente a 14 ed 11 anni, furono ricevute nel Monastero di Santa Chiara di Levanto come Educande, iniziando il loro percorso formativo che, nel 1743, si concluse con la Licenza di Monacazione, precedendo l’anno del Noviziato.
Risale infatti al 9 dicembre 1743 un’altra lettera di Matteo Vinzoni, nel frattempo salito al grado di colonnello, nella quale lamenta il mancato pagamento delle spese sostenute “di propria stacca” nelle missioni che aveva compiuto per conto della Serenissima Repubblica e come avesse dovuto sborsare “contante molto eccedente il consueto, non tanto per esservi… nello stesso Monistero [di Santa Chiara di Levanto] tre sorelle, quanto ancora per essere una delle due ultime notabilmente pregiudicata nella vista”.
Le solenni promesse definitive, come si direbbe oggi, furono pronunciate il 26 ottobre 1744 e le due sorelle furono inserite entrambe nel gruppo delle Monache Corali. Fu allora che Bianca Maria e Maria Antonia, rispettivamente di 19 e 16 anni assunsero i nomi di Suor Rosa Candida Celeste e Suor Felice Colomba.
Quest’ultima però già gravemente provata nella vista si ammalò di tisi e morì nel 1752. Avendo accusato gli stessi sintomi del male anche Suor Rosa Celeste alla morte della sorella chiese licenza di essere trasferita dalla clausura di Levanto alla casa di campagna paterna di Montaretto: la risposta pervenuta da Roma non ebbe l’esito sperato perché fu disposto il trasferimento della religiosa al convento del medesimo ordine di Sarzana, fatto che avvenne l’anno seguente.
Suor Rosa non era in città nel 1770 quando, all’inizio dell’anno, il vescovo Giulio Cesare Lomellini rientrò a Sarzana dopo il suo esilio massese perché si trovava a Levanto in un periodo di licenza che fu prorogato e la Carta della Diocesi preparata dal Matteo Vinzoni come omaggio al vescovo fu consegnata dal mezzadro il 27 dicembre di quell’anno.
Già a partire dal 1765 la religiosa chiese al vescovo la licenza di tornare alla casa paterna per motivi di salute, ma la lista s’interrompe per riprendere nel 1770 e proseguire di sei mesi in sei mesi fino al 1772.
Facendo qualche calcolo approssimativo i suoi soggiorni a Sarzana diminuirono drasticamente tanto da suggerire l’ipotesi che l’allora brigadiere Vinzoni lavorasse per trattenere sempre più a lungo la figlia amata nella sua dimora, risparmiandole i viaggi di rientro per mare, soprattutto nella cattiva stagione.
Negli anni che seguirono la morte del padre, avvenuta il 12 agosto 1773, suor Rosa Celeste chiese l’annullamento della professione e tra le carte del processo si trova una testimonianza, della madre Francesca, che chiarisce molti punti della vicenda. Essa afferma che la figlia entrata in monastero, durante il tempo che precede la professione, le fece espressamente intendere per mezzo del suo Confessore che non era sua intenzione di farsi Monaca e che ella non si sentiva inclinata ad abbracciare un tale instituto.
Per queste ragioni chiedeva alla madre di trovare un modo per farla uscire, ma essa rifiutò: “io non stimai bene aderire anzi la esortai con tutta l’efficacia a volersi dar pace, ed a voler restare in Monastero, al fine di non irritare l’animo del fu suo padre mio respettivo marito: mettendole in vista che se essa fusse stata in ciò restia il medesimo si sarebbe messo nell’ultima agitazione, e quindi, come che egli era dotato di temperamento impetuoso, stravagante, e feroce, senza risparmiarle le più chiare minacce sarebbe facilmente venuto alle più strane risoluzioni”.
Non solo, se fosse uscita avrebbe portato con lei anche la sorella cieca, e ciò avrebbe causato guai ancora maggiori dato che le monache avevano fatto capire chiaramente che l’unica, ma determinante, condizione che ponevano alla sua accettazione era la presenza di Suor Rosa, che evidentemente se ne prendeva cura.
Essa allora per non “cimentare lo sdegno paterno e quindi isperimentarne i di lui effetti, fece violenza a sé stessa e scelse il doloroso partito di sacrificare sé stessa al capriccioso genio del padre”. Il quale più volte aveva fatto capire l’intenzione che la figlia si facesse monaca, anche quando di fronte alla possibilità di partito vantaggioso che si era presentato in Levanto per maritarla, in una lettera capitata per caso tra le mani della stessa suor Celeste, egli aveva opposto un netto rifiuto: “mi rispose in termini aspri e in aria di gran risentimento ch’io non mi stassi a impacciare in simili cose, che non volea sentirne discorrere, poiché era sua intenzione di collocare la figliuola in Monastero”.
Non sappiamo come finì la storia perché i documenti sarzanesi non conservano la sentenza del processo, ma le carte rimaste stilate tra il 1777 ed il 1778 lasciano ben poche speranze di accoglimento. L’epilogo si ebbe probabilmente nel 1798 con la costituzione della Repubblica ligure quando le monache vennero rinviate alle case paterne a causa della confisca da parte dello stato degli edifici monastici. Suor Rosa celeste aveva allora 73 anni.

Roberto Ghelfi