
Cento anni fa, il 18 novembre 1923 entrava in vigore la “Legge Acerbo”. Fu applicata una sola volta nel 1924

Per una curiosa coincidenza storica, proprio nei giorni del centenario della legge Acerbo – che per la prima volta ha inserito un premio di maggioranza nella legge elettorale italiana – si è avuta l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un disegno di legge costituzionale che introdurrebbe l’idea del “premio” nella stessa Costituzione.
Infatti, come recita il comunicato stampa del Consiglio dello scorso 3 novembre, tale d.d.l. “affida alla legge la determinazione di un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55 per cento dei seggi parlamentari, in modo da assicurare la governabilità”.
La storia politica e istituzionale dell’Italia nell’ultimo secolo è stata – del resto – punteggiata proprio dalla ricorrente adozione di sistemi elettorali comprendenti un premio, variamente declinato.
Che cosa s’intende per “premio di maggioranza”? è necessario? L’idea è quella di un meccanismo che in qualche modo distorca la volontà degli elettori – rispetto ad una sua mera “fotografia” – al fine di permettere governi più stabili. Il vero punto sta nella intersezione fra il sistema elettorale in uso e gli esiti che questo in concreto genera. Collegi uninominali o plurinominali ?
Il premio di maggioranza
Ma cosa s’intende per “premio di maggioranza”? L’idea è quella di un meccanismo che in qualche modo distorca la volontà degli elettori – rispetto ad una sua mera “fotografia” – al fine di permettere governi più stabili.
Si tratta, chiaramente, di una esigenza avvertita solo laddove sia presente un legame di fiducia tra parlamento e governo: non si pongono problemi simili in forme di governo come quella statunitense, dove il vertice appunto del governo sorge da una legittimazione popolare (per quanto sia, in quel caso, un’elezione di secondo grado, con il noto sistema dei “grandi elettori”).
In realtà, anche nelle forme di governo parlamentari – quelle che prevedono appunto che il governo stia e cada con il gradimento del parlamento – non è detto che un premio di maggioranza sia necessario.
Anzi, proprio in quella che ne costituisce il più risalente e prestigioso esempio, ovvero quella inglese, non prevede alcun premio di maggioranza.

Il sistema elettorale
Il vero punto, trattando di premi di maggioranza, sta nell’intersezione fra il sistema elettorale in uso e gli esiti che questo in concreto genera, o si spera che generi. Quanto ai sistemi elettorali, ad esempio nel Regno Unito sono usati (per la Camera dei Comuni) solo collegi uninominali: banalmente, con essi il territorio è suddiviso in porzioni in ciascuna delle quali è eletto un solo rappresentante.
L’alternativa è quella dei collegi plurinominali, con i quali in ogni porzione di territorio ne sono eletti almeno due, a crescere, secondo una ripartizione di tipo proporzionale ai voti ricevuti da liste contrapposte.
La storia della Camera dei Deputati del Regno d’Italia è caratterizzata, all’inizio e salvo una breve parentesi, dal collegio uninominale. Tale sistema, unito al suffragio non universale ma ristretto ai ceti privilegiati, aveva favorito una dialettica parlamentare basata essenzialmente su “notabili” locali, che si aggregavano in base ad appartenenze ideologiche lasche, spesso basate sull’appoggio a singole personalità influenti.
Il Senato del Regno non era, invece, elettivo ma composto da membri nominati a vita dal Re (di fatto, assai spesso su volontà del governo). Solo nel 1919 si arrivò a coniugare per la Camera un effettivo suffragio universale maschile con un sistema di collegi plurinominali che consentivano una ripartizione dei seggi proporzionale ai voti espressi per le singole liste.
La novità fu dirompente: nella Camera fecero per la prima volta ingresso i partiti politici nel senso attuale della parola. Talmente dirompente che di lì a poco il sistema istituzionale crollò, sotto il peso delle violenze e dell’estremismo ormai diffusi nel Paese, a fronte di una politica bloccata da veti incrociati.
Il governo Mussoli del 1922 e la legge Acerbo

Fu in questo contesto che maturò l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini nell’ottobre del 1922, conferito da parte del Re sotto la minaccia delle camicie nere disposte a marciare su Roma.
Eppure, contrariamente a quanto si possa pensare, nel momento in cui diventava Presidente del Consiglio, il futuro Duce poteva contare su meno di 40 deputati propriamente fascisti su 535 componenti della Camera dei Deputati (l’unica che poteva dare – e togliere – la fiducia).
Non appena fu in grado di farlo, quindi, decise di mettere mano alla stessa legge elettorale, per potersi assicurare agevolmente una Camera “a sua immagine”. Fu così che si arrivò alla legge del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne curò la redazione).

La legge introdusse un sistema che prevedeva l’introduzione del Collegio (plurinominale) Unico nazionale attribuendo ben due terzi dei seggi alla lista più votata purché avesse ottenuto almeno il 25% dei voti validi, mentre l’altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza con criterio proporzionale.
Nel caso in cui nessuna delle liste avesse superato il quorum (del 25%), la ripartizione dei seggi sarebbe avvenuta interamente su base proporzionale.
In realtà la legge Acerbo fu applicata una sola volta, nel 1924: in un clima ormai segnato da diffuse e gravi intimidazioni, il cosiddetto “listone” (che comprendeva essenzialmente fascisti e liberali di destra) trionfò con quasi il 65% dei voti, di tal che il premio ebbe numericamente un’influenza minima.
Per le elezioni del ventennio successivo si passò poi ad un sistema plebiscitario nel quale gli elettori potevano solo dire sì o no ad una lista interamente precompilata, ed infine al venir meno dell’elettività popolare stessa a favore di una Camera dei fasci e delle corporazioni su base – appunto – della designazione da parte di associazioni a carattere professionale ma rigorosamente inquadrate all’interno dello Stato.
Leggi elettorali della Repubblica Italiana
Con la Costituzione ed il ritorno ad elezioni libere a partire dal 1948 (stavolta sia per la Camera che per il Senato), la storia del premio di maggioranza era però tutt’altro che finita.
Il sistema adottato era di tipo proporzionale, ma già alla fine della prima legislatura la maggioranza di governo riuscì a far approvare – tra contestazioni durissime delle opposizioni – proprio una legge che attribuiva, alla Camera, circa il 65% dei seggi alla lista o “gruppo di liste” che avesse raggiunto la meta più uno del totale dei voti validi.
Tale innovazione, rimasta celebre con il poco lusinghiero nomignolo di “legge truffa” affibbiatole dagli oppositori, non fruttò però il premio sperato perché alle elezioni del 1953 la Democrazia Cristiana e le liste collegate non raggiunsero il quorum per un soffio, fermandosi al 49,2%.
Subito dopo la piena proporzionalità del sistema elettorale fu ripristinata, e rimase in piedi fino al 1993, quando – anche sulla scorta di un referendum – si passò ad un sistema misto di collegi uninominali e plurinominali.
Tuttavia, la seduzione del premio di maggioranza era destinata a farsi sentire di nuovo: alla fine del 2005, in vista delle elezioni dell’anno successivo, fu approvata una legge elettorale che tornava sì ad un sistema proporzionale ma con un generoso premio: alla Camera, alla coalizione di liste (o alla lista non coalizzata) più votata, qualora non avesse già conseguito almeno 340 seggi, era attribuito un premio di maggioranza tale da farle raggiungere tale numero.

Al Senato, invece, il premio era dato su base regionale, il che peraltro condusse nel 2006 ad un risultato bizzarro di reciproche compensazioni fra i premi vinti dalla coalizione di centrodestra e quelli vinti dalla coalizione di centrosinistra (vittoriosa alla Camera) e quindi ad una sostanziale parità dei seggi tra le due coalizioni, la quale minò la durata del governo presieduto da Romano Prodi e della stessa legislatura, che si interruppe bruscamente dopo solo due anni.
Il premio di maggioranza così declinato fu poi dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale, anche per il fatto di non prevedere una soglia minima. Nel 2015 fu dunque approvato un nuovo sistema elettorale, che di nuovo prevedeva un premio di maggioranza subordinandolo, però, al raggiungimento del 40% o ad un ulteriore turno di ballottaggio fra le due liste più votate se nessuna avesse raggiunto tale soglia.
La Corte costituzionale è intervenuta in senso demolitorio verso tale ultima previsione di ballottaggio, ed il sistema del 2015 è stato modificato anche perché legato a doppio filo alla coeva riforma costituzionale, bocciata con il referendum del 2016.
Il sistema elettorale attuale, approvato nel 2017, consiste di nuovo in un misto di collegi uninominali e plurinominali, e non prevede al momento premi di maggioranza. Eppure, visti i precedenti – per quanto non lusinghieri – la domanda, ora, non può essere che questa: a quando il prossimo?
Prof. Fabio Pacini
Docente di diritto costituzionale della Scuola Sant’Anna di Pisa