Un forte impegno in favore della pace
Carri armati israeliani (Foto ANSA/SIR)

Parlare della Palestina, soprattutto dei palestinesi, oggi, è piuttosto complicato poiché c’è il rischio di essere tacciati per sostenitori dei terroristi. Spesso si tende a identificare Hamas con tutto il popolo palestinese, che ha già la sfortuna di essere in balia di un movimento (Hamas, appunto) preoccupato solo di organizzare i suoi apparati militari. È chiaro che non ci sono parole di fronte all’esecrabile azione terroristica del 7 ottobre, così come è chiaro che Israele abbia diritto alla difesa. Ma è anche chiaro, ormai, che c’è un popolo ostaggio di entrambe le parti. “Non c’è acqua, non c’è elettricità, non c’è mangiare, non c’è niente. Dove andiamo?”. È il grido di una suora palestinese travolta dalle condizioni estreme nelle quali si trova Gaza. Nei giorni scorsi, infatti, Israele ha posto il blocco totale ad ogni tipo di rifornimento a quel territorio. Infine, ha invitato la popolazione a scendere a sud, verso l’Egitto e il deserto del Sinai. Questo in vista di un attacco via terra per estirpare le milizie di Hamas. Al momento pare siano 600.000 i cittadini in fuga senza un luogo sicuro in cui andare, senza casa, senza viveri, senza futuro.

Mappa di Israele (da Wikipedia)

Le diplomazie internazionali si sono finalmente svegliate. Tutti temono l’escalation della guerra. Una minuscola striscia di terra tiene in affanno tutto il mondo. Il timore è che cellule terroristiche dormienti o lupi solitari – qualche avvisaglia si è già avuta in Francia nei giorni scorsi e a Bruxelles lunedì sera – entrino in azione mettendo a repentaglio la sicurezza di cittadini inermi. Tutti premono su Israele perché desista da ritorsioni “esagerate”, ma non tutti con le stesse motivazioni. Mentre i Paesi occidentali sono quasi totalmente dalla sua parte, per i Paesi del Brics, in particolare la Cina, le azioni di Israele “sono andate oltre l’ambito dell’autodifesa” e lo Stato ebraico “dovrebbe ascoltare seriamente gli appelli della comunità internazionale e del segretario generale dell’Onu, mettendo fine alle punizioni collettive del popolo di Gaza”. In tal modo Pechino sposa la causa dei Paesi arabi, tra cui l’Iran, facendosene quasi portavoce. Si tratta di alleanze non disinteressate. Nell’immediato, si cerca di limitare i danni tentando di aprire qualche corridoio umanitario. Ma nel futuro si dovrà pensare seriamente a dare una soluzione ad un problema che da 70 anni affligge il mondo.

Non è certo una soluzione quella prospettata dal ministro degli esteri israeliano: “Noi non diciamo a quelli di Gaza di tuffarsi in mare. Ma c’è uno spazio infinito nel deserto del Sinai”. A qualcuno, come il ministro belga Van Quickenborne, preoccupato dell’ondata di palestinesi in Europa, l’idea piace: “Ci sono Paesi abbastanza ricchi per fare questo lavoro”. Non buttateli in mare, c’è il deserto!