

La crescita del Pil italiano rallenta, un’imminente recessione è molto di più di un’ipotesi e il governo deve correre ai ripari; o almeno dovrebbe, a partire dalla legge di bilancio che a breve andrà in discussione in Parlamento.
Il condizionale è d’obbligo perché le misure presentate danno l’impressione di non essere in grado di contrastare il ciclo economico.
La Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef) – ossia il documento di politica economica su cui si imposta la legge di bilancio – presentata a fine settembre ha dipinto in maniera realistica la situazione italiana: nel secondo trimestre del 2023 il Pil si è ridotto dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti.

I motivi della frenata sono molti: il calo della domanda globale e, a livello dell’area dell’euro, la dura e poco mirata politica anti inflazionistica della Banca Centrale Europea.
A ciò vanno aggiunte le tensioni internazionali (Ucraina, Israele, Azerbaijan) che stanno già influenzando, tramite la speculazione finanziaria, i prezzi dell’energia.
Per questo il governo, rispetto alle previsioni primaverili, ha rivisto al ribasso le stime del Pil: crescita dello 0,8% nel 2023 e dell’1% nel 2024 sono le previsioni contenute nella Nadef. Ma per centrare questi obiettivi – secondo molti troppo ottimistici – il governo ha espresso a chiare lettere la necessità di intervenire per ridare slancio all’economia.
“Occorre consolidare la crescita, soprattutto nel corso del prossimo anno, con provvedimenti che garantiscano la tutela del potere d’acquisto delle famiglie e continuino ad accompagnare il processo di riduzione dell’inflazione” si legge nella Nadef.
Per farlo, il governo Meloni ha inteso “dare concreta attuazione ai contenuti previsti dalla delega fiscale per avviarsi su un percorso che, nel corso dei prossimi anni, trasformi il sistema tributario in un fattore di crescita”.

“Meno tasse, più crescita” è in sintesi la sempiterna idea liberista della destra italiana, per nulla scoraggiata dall’evidenza che i problemi dell’economia nazionale stiano altrove.
L’Unione Europea, dal canto suo, ha dato una mano: nel probabile ultimo anno di deroga alle ferree regole di bilancio istituite nel 1999 e sospese con la pandemia (l’anno prossimo il patto di stabilità dovrebbe tornare in vigore con pochi ritocchi rispetto al passato: le trattative sono in corso), Bruxelles ha “regalato” all’Italia l’opportunità di arrivare nel 2024 ad un deficit di bilancio del 4,3% del Pil, lo 0,7% in più di quanto inizialmente concesso.
Tradotto in parole povere, 15,7 miliardi di euro di maggiori spese, finanziate da nuovo debito pubblico, a cui il governo ha aggiunto altri 8 miliardi, frutto soprattutto di tagli di spesa: risorse che saranno utilizzate, come recita la relazione al Parlamento di Meloni e Giorgetti “per il taglio al cuneo fiscale sul lavoro anche nel 2024, l’attuazione della prima fase della riforma fiscale, il sostegno alle famiglie e alla genitorialità, la prosecuzione dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego con particolare riferimento al settore della sanità”.
Al di là del fatto che sia poco virtuoso – e nemmeno efficace, dice l’esperienza empirica – ridurre le tasse facendo nuovo debito, con quali soldi nel 2025 verranno finanziati i tagli al cuneo e la delega fiscale, che da soli valgono per l’anno venturo 14,5 miliardi?
La domanda è d’obbligo, dal momento che per il 2025, il governo si è impegnato con la Commissione UE a raggiungere un deficit/Pil del 3,6% e un debito pubblico del 140%.
La risposta è semplice, quanto disarmante: le risorse ci sono solo per il 2024, nonostante la legge di bilancio sia triennale.
Insomma, le riforme strutturali diventano riforme provvisorie: le minori imposte ci saranno per un anno, dopo si vedrà.
Oltre alla conferma del taglio del cuneo contributivo e l’unificazione delle prime due aliquote Irpef, la legge di bilancio prevede la piena rivalutazione delle pensioni solo per quelle fino a 4 volte il minimo, l’azzeramento dei contributi previdenziali a carico delle madri di almeno due figli, il rinnovo dei contratti pubblici con priorità per il comparto sanitario e le forze di polizia, tre miliardi a parziale copertura dell’erosione operata dall’inflazione sui fondi per la sanità.
In campo pure un pacchetto per la natalità del valore di un miliardo di euro, anch’esso valido solo per il 2024: più congedi parentali, aumenti al fondo asili nido, decontribuzioni per le mamme lavoratrici.
Dopo i passaggi parlamentari ci sarà tempo per analizzare in profondità le misure più significative. Quel che emerge, tuttavia, è la provvisorietà degli interventi più significativi e la precarietà dei saldi di bilancio: su 24 miliardi di manovra, quasi 16 sono coperti con nuovo debito che, con l’aumento dei tassi di interesse e le difficoltà di collocamento (i programmi di acquisto da parte della Bce stanno per terminare), potrebbe determinare un’impennata della spesa per interessi, già aumentata di 13 miliardi nel 2023, per far fronte alla concorrenza da parte di altri debiti pubblici e alle scommesse speculative: un contesto che tutto suggerisce tranne che il consolidamento della crescita sostenuto dal ministro Giorgetti.
Davide Tondani