Nel settembre di 100 anni fa l’istituzione della provincia spezzina. Una circoscrizione “dimezzata” che deluse quanti si spesero per l’affermazione di una più ampia “provincia della Lunigiana”
Con un Regio Decreto del 2 settembre 1923 firmato da Re Vittorio Emanuele III ed entrato in vigore il 22 dello stesso mese venne istituita la Provincia di La Spezia.
La nascita del nuovo ente rappresentò il tardivo riconoscimento dell’avvenuta trasformazione di Spezia da borgo marinaro a città, a seguito dell’istituzione dell’Arsenale, inaugurato nel 1870, e delle infrastrutture connesse a quella che era divenuta una strategica piazzaforte militare. L’aspirazione spezzina a diventare capoluogo provinciale mosse i primi passi proprio nel decennio successivo all’Unità d’Italia, ma trovò compimento solo mezzo secolo dopo.
Nel disegno dei politici e degli intellettuali di allora, l’erezione della provincia aveva l’obiettivo di dare ad un comune passato dai 15 mila abitanti del 1861 ai 100 mila del 1921 un definitivo status di città, non solo dotando il centro urbano degli uffici amministrativi correlati al rango di capoluogo, ma costruendo attorno ad esso quelle condizioni che potessero assicuragli orizzonti più ampi di quelli determinati dall’Arsenale e dall’industria militare pubblica.
“Dallo Stato Spezia ha avuto fin troppo – disse nel 1913 il pontremolese Manfredo Giuliani, uno degli intellettuali più attivi nel movimento per la nuova provincia – ora occorre che sappia sviluppare quelle condizioni fortunate, provocate da cause esterne, onde trasformare la sua esistenza passiva in attività di una nuova vita di industrie, di commerci, di interesse amministrativi, di rapporti civili”.
Un’analisi per certi aspetti ancora attuale che, partendo dalla tesi di una Spezia “un po’ per la sua indole, come tutti i paesi della Lunigiana, abituata ad aspettare tutto dal di fuori, dal governo, dal cielo”, vedeva nell’erezione a capoluogo il salto verso la condizione di vera e propria città che “accentri tutta l’attività, ora disgregata, della vicina regione, che cerchi in se stessa la ragion d’essere, la forza per il suo sviluppo”.
Questi obiettivi rappresentavano la declinazione locale della riforma amministrativa del Regno di cui a lungo si discusse nei decenni post unitari: una riforma che desse compimento all’Unità d’Italia, da un lato tagliando i nodi delle divisioni territoriali, dei regimi feudali e degli Stati preunitari, per dare il senso di un nuovo corso della storia nazionale; dall’altro, ripensando le province non più come ripartizioni del territorio nazionale in cui lo Stato accentrato si rendeva presente con prefetti e intendenti di finanza – obiettivo per il quale la coerenza geografica era secondaria – ma come ente pubblico con il compito di curare gli interessi e promuovere lo sviluppo di territori omogenei da un punto di vista economico e sociale.
Sul piano locale questo avrebbe significato dare slancio ad un porto mercantile per secoli reso insignificante dal dominio di Genova, che concentrava sul proprio scalo i traffici marittimi, e promuovere i commerci e l’industria legati ad un’economia cittadina e dell’entroterra di cui progettare lo sviluppo.
Tuttavia, quell’ampio territorio (la valle di Magra, quella del Vara, il Golfo e la riviera fino a Sestri) che nel secondo dopoguerra Ubaldo Formentini definirà “lo spazio naturale che determina l’orientamento effettivo delle nostre relazioni economiche di più vasta portata” e che nelle intenzioni del movimento per la provincia avrebbe dovuto beneficiare della nuova circoscrizione, non divenne un’unica provincia come sperato dal movimento intellettuale e politico che promosse l’istanza.
Il Regio Decreto del 1923 assegnava infatti al nuovo ente tutti i comuni dell’allora circondario di Spezia, quelli di Maissana e Varese Ligure del circondario di Chiavari e quelli di Calice al Cornoviglio e Rocchetta di Vara del circondario di Massa e Carrara.
“Una popolazione ed un numero di Comuni sufficiente ad assicurare la vita amministrativa del nuovo Ente” – si legge nella relazione al Decreto firmata dal Ministro dell’Interno e Presidente del Consiglio Benito Mussolini – ma senza i comuni della Lunigiana interna, peraltro quasi tutti favorevoli al passaggio a Spezia.
Alle preoccupazioni di Mussolini, da pochi mesi capo del governo, di creare una circoscrizione che “non turba notevolmente gli interessi delle provincie di Genova e di Massa Carrara” nella fase in cui prendeva forma la rete di potere locale del costruendo regime fascista, si unirono le esitazioni di molte forze parlamentari, dai repubblicani ai liberali, a parole favorevoli alla riforma amministrativa ma, in una tumultuosa fase di crisi dello Stato liberale, prive del coraggio di portarla a fondo e dare allo Stato accentrato un assetto che rendesse i territori maggiormente protagonisti delle loro sorti.
Nel secondo dopoguerra l’idea di unire i 14 comuni della Lunigiana interna o parte di essi alla Spezia è più volte riemersa, anche in decenni recenti, spesso ancorata a fragili antagonismi politici piuttosto che alle solide basi del movimento di 100 anni fa.
L’ipotesi di una “provincia della Lunigiana” dovrebbe però oggi fare i conti con l’esistenza di centri decisionali ancor più ampi come le regioni e con la crisi delle province, perenne anello debole della catena degli enti locali: elementi che, nelle settimane in cui al Palazzo del Governo di via Vittorio Veneto si celebrano i 100 anni dell’Ente, sopiscono le istanze di chi, riattualizzando le parole di Angelo Landi – presidente della Provincia della Spezia negli anni del cinquantesimo anniversario della sua istituzione – ritiene che quella spezzina sia una “Provincia dimezzata”.
(Davide Tondani)