
L’intervento del prof. Alessandro Volpi ad Aulla nel convegno “Mani di donne”. Tavola rotonda con Angela M. Fruzzetti, Mirella Cocchi e Melania Sebastiani

Se oggi, in Italia, il tasso di occupazione delle donne non arriva al 44%, ci sono stati anni nei quali era arrivato a superare anche il 50%; questo è accaduto soprattutto negli anni delle due guerre mondiali, quando gli uomini erano stati costretti ad abbandonare le attività lavorative e gli abiti civili per indossare la divisa.
Era successo, in particolare, durante gli anni del secondo conflitto mondiale, ma c’è stata una stagione – a cavallo fra Otto e Novecento – nella quale più di una donna su due lavorava pur in assenza di guerre. A ricordarlo è stato il prof. Alessandro Volpi sabato scorso ad Aulla, nell’ambito della tavola rotonda “Mani di Donne”, organizzata dall’associazione “Fili di Juta”.

Il docente all’Università di Pisa nel suo intervento sul tema “Organizzazione e rappresentanza del lavoro femminile nel ‘900”. “Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento è stata registrata la maggior occupazione femminile – ha spiegato Volpi – con le donne impiegate soprattutto in tre tipologie di lavoro: quello in agricoltura, quello a domicilio e quello nell’industria”.
Nel settore primario il ruolo femminile non era circoscritto alla cura della famiglia o a svolgere lavori occasionali nei campi, bensì molto più ampio e costante in tutte le attività agricole.
Quello a domicilio era invece un lavoro quasi esclusivamente delle donne, impegnate nello svolgere le commissioni dell’industria tessile, un percorso produttivo diffuso un po’ in tutta Italia, ma con una diffusione capillare soprattutto in Piemonte e Lombardia.
Infine l’industria: il reclutamento delle donne avveniva in particolare in alcuni settori dove l’utilizzo della manodopera femminile risultava essere più funzionale alla produzione. Ma spesso la scelta dipendeva dal fatto che le donne dimostravano una minore propensione alla sindacalizzazione e venivano dunque considerate “meno pericolose” dai proprietari.
Ma, ha sottolineato il prof. Volpi, con l’avanzare dell’età giolittiana qualche cosa inizia a cambiare, le donne iniziano a partecipare alla politica partendo proprio dalla difesa del lavoro e dalle rivendicazioni a cominciare dalla parità di salario con gli uomini e dalla garanzia del diritto alla maternità.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la mobilitazione di oltre un milione e mezzo di uomini vede le donne italiane diventare la principale forza lavoro del Paese, favorite dalla diffusione di macchine che permettono loro di svolgere qualsiasi tipo di attività.
Finito il conflitto la popolazione maschile intende occupare di nuovo il proprio ruolo, ma le donne non ci stanno “a essere rispedite a casa” come dimostrano le forti tensioni che si registrano anche durante il Biennio Rosso.
Pochi anni e anche il fascismo non si fida delle donne perché sono potenzialmente “pericolose”, ormai sono spesso sindacalizzate, soprattutto nell’industria; il sindacato fascista fatica ad entrare nelle fabbriche e sostituire le altre organizzazioni sindacali e ci riesce solo con la loro messa fuorilegge nel 1926.
E poi c’è la campagna politica per fare di tutte le donne veri e propri “angeli del focolare” e per la propaganda il lavoro e sinonimo di maschio, come ben si percepisce dalle immagini della “battaglia del grano”.
Con la Seconda Guerra Mondiale lo schema si ripete: ruolo insostituibile delle donne da rispedire a casa al termine, quando tornano gli uomini; e l’occupazione femminile continua a diminuire per tutti gli anni Cinquanta, fino a quando non inizia l’impiego delle donne nel settore terziario, quello che assorbe gran parte di quel lavoro femminile espulso soprattutto dalle fabbriche che tornano ad essere territorio maschile anche a causa dell’abbandono delle campagne del centro sud e l’emigrazione verso il Nord Italia.
Solo negli ultimi due decenni del Novecento l’occupazione femminile conosce una nuova stagione di crescita, grazie anche ad un’alta presenza di donne nelle piccole imprese italiane, che non di rado sono a dimensione familiare.
(Paolo Bissoli)