

“Cherchez l’argent!”. La parafrasi del detto di solito riferito alle donne rischia di tarpare le ali alle speranze (o illusioni) legate all’incontro di lunedì scorso, a Pechino, fra il segretario di Stato di Washington, Antony Blinken, e il ministro degli esteri cinese, Qin Gang, e, soprattutto, al successivo faccia a faccia tra l’inviato di Biden e il leader cinese Xi Jinping. Un evento significativo, come importanti devono essere considerati tutti i tentativi di dialogo tra Stati che servano a tenere lontano il rischio di conflitti, armati e non. Due i grandi temi sul tavolo: la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina e l’annosa diatriba legata a Taiwan, nazione piccola ma molto forte economicamente, situata su di un’isola a due passi dalla madre-matrigna, che, di tanto in tanto, rivendica il “ritorno a casa” del figlio che non vuole saperne di “redimersi”.
Sul primo molto si è detto e scritto e, almeno per il momento, non sembra che la Cina sia disposta ad impegnarsi più di tanto in un’azione di sostegno ad un alleato che solo da poco tempo, per necessità, è diventato tale. Le due superpotenze, quindi, potrebbero arrivare ad un accordo per ridurre a più miti consigli entrambe le parti. È su Taiwan, invece, che si gioca la partita più difficile; proprio perché dietro alle istanze di tipo nazionalistiche avanzate da Pechino c’è tutto il sistema dei futuri equilibri mondiali. I secoli passano, ma non viene meno il vizietto, coltivato da sempre dai potenti, di considerare l’intero pianeta come una torta da spartire tra i più forti. Difficile, almeno nel breve periodo, che il nodo di Taiwan possa essere sciolto tramite accordi: è più facile immaginare che rimanga una spina nel fianco della Cina e una pietra di inciampo nei rapporti tra questa e gli Usa, ma, come si diceva, il dialogo diretto è sempre meglio di una partita a scacchi giocata a distanza. Quella sul potere economico è la vera partita.
Sia essa sotto forma del controllo delle tecnologie più avanzate o del commercio mondiale. È risaputo che l’Occidente ha di fatto ceduto la produzione dei microcircuiti ai Paesi dell’Estremo Oriente e Taiwan vi gioca una parte preponderante. Per spostare ingenti volumi produttivi in altri Paesi (in India, per esempio) ci vogliono tempo e tanto denaro, quindi è impensabile che tutto quel settore possa essere lasciato alla Cina, come accadrebbe nel caso dovesse annettere l’isola di Formosa. Quanto ai commerci, è da tempo che la Cina si sta espandendo in Africa e Sud America ma anche nella stessa Europa, che in questo “gioco” per il momento, sta facendo la parte del vaso di coccio. Come si capisce, non ci sono solo i conflitti armati da temere; la sfida è quella di riuscire a rendere più moderati gli appetiti dei “forti” e più equi i rapporti tra i tanti Paesi legati dall’appartenenza ad un’unica Terra.
Antonio Ricci