Il vescovo della pace  testimone della  “Chiesa del grembiule”

Trent’anni fa moriva don Tonino Bello, dichiarato venerabile nel 2021

Don Tonino Bello (1935 – 1993)

Una vita da “veri e propri innamorati del Signore, con l’ardore del sogno, lo slancio del dono, l’audacia di non fermarsi alle mezze misure. Perché quando il Signore incendia il cuore, non si può spegnere la speranza”: sono le parole che Papa Francesco ha usato per definire don Tonino Bello il giorno della sua visita pastorale nel 2018 ad Alessano (Lecce), dove il presule nacque nel 1935 e dove riposa dopo la sua morte avvenuta il 20 aprile 1993, trent’anni fa, a Molfetta, la diocesi che guidò come vescovo dal 1982. I poveri, la pace, il suo Mezzogiorno come ponte verso il Mediterraneo, una Chiesa liberata “dai segni del potere per dare spazio al potere dei segni”: la teologia di don Tonino Bello ha ruotato intorno a questi concetti, collegati inscindibilmente tra loro da una fede – le parole sono ancora quelle di Francesco – “con i piedi per terra e gli occhi al Cielo”.
Senza abusare di retorica, don Tonino è stato un profeta del nostro tempo, non sempre compreso, del quale nel 2021 sono state riconosciute le virtù eroiche, passo decisivo verso la beatificazione. Prete di quel Salento proteso verso Oriente e verso l’Africa, don Tonino formerà la sua coscienza cristiana unendo alle sue radici l’esperienza bolognese: nel 1953 dal seminario diocesano viene inviato all’Opera nazionale di assistenza religiosa e morale degli operai, nata nel 1937 per formare preti destinati a diventare cappellani del lavoro. Nella Bologna del Cardinale Lercaro e di Dossetti, don Tonino studia quello che in qualsiasi seminario diocesano non fa parte della formazione dei chierici: dottrina sociale della Chiesa, storia economica, sociologia, psicologia sociale, frequentando parallelamente le fabbriche, a fianco degli operai. Un’esperienza che il vescovo pugliese ricorderà come imprescindibile per la sua formazione e che replicherà sia come vice rettore nel seminario di Ugento sia come Vescovo. La nomina episcopale arriverà nel 1982.

La tomba di don Tonino Bello ad Alessano, suo paese natale in provincia di Lecce

Dalla cattedra di Molfetta la fama di don Tonino Bello, come si faceva chiamare anche da vescovo, si espande in tutta Italia. A fare parlare di lui sono le sue omelie e la sua comunicativa in cui usa il linguaggio immaginifico dei profeti della Bibbia, ma anche il suo stile di vita sobrio, l’attenzione per le tante povertà della sua Diocesi, il suo essere “vescovo di strada” sempre immerso nel quotidiano della sua gente. Non è infrequente che i bisognosi passino la notte in episcopio o che qualche senzatetto trovi riparo dalla pioggia nella sua vecchia Ritmo lasciata “distrattamente” aperta.
Alle parole di speranza del pastore che porta la buona novella alterna le denunce sulle condizioni di vita dei suoi concittadini, allargando lo sguardo sul resto del mondo: nel 1985 venne indicato dalla Cei nel ruolo di guida di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pace. Sono gli anni della corsa agli armamenti e si batte contro il potenziamento dei poli militari di Crotone e Gioia del Colle e contro l’intervento bellico nella Guerra del Golfo.
È un pacifismo, quello di don Tonino, immerso nella complessità del mondo e che si salda con i temi dell’ecologia, delle povertà, dei divari economici, delle migrazioni. Non sempre la spinta pacifista di don Tonino Bello venne accolta. Contro l’intervento bellico nella prima guerra del Golfo manifestò un’opposizione così radicale da attirarsi l’accusa di istigare alla diserzione. E anche all’interno della Chiesa le incomprensioni non mancarono: vi fu anche qualche vescovo che ne impedì la predicazione nella sua diocesi, nonostante la giustificazione teologica che seppe dare al suo invito “in piedi, costruttori di pace!”. La marcia della pace che portò 500 pacifisti nella Sarajevo assediata nel dicembre del 1992 fu la sua ultima testimonianza: già sofferente per il tumore che lo avrebbe strappato alla vita 4 mesi dopo, don Tonino, a capo di quella comitiva, sfidò bombe e cecchini per mettere in atto “un’altra Onu”, e dimostrare come la “convivialità delle differenze” fosse possibile. Don Tonino Bello trovava nella Parola, nella sapienza teologica e in una forte spiritualità le ragioni del suo agire.
Con scritti profondi ma accessibili a tutti seppe giustificare il suo operato e indicare una rotta per i fedeli e per le comunità cristiane: le sue litanie a “Maria, donna dei nostri giorni” e le sue riflessioni sulla Croce e sull’Eucaristia ne sono ancora testimonianza. Ma più di tutti, a restituire la cifra di don Tonino Bello, è la sua idea di “Chiesa del grembiule”, una chiesa che indossato “l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo”, quello della lavanda dei piedi, si alza dalla tavola eucaristica per mettersi al servizio degli uomini, a partire dai più poveri: parole profetiche che tre decenni dopo risuoneranno nell’Evangelii gaudium di un Papa anch’esso del sud, ma del mondo intero: quelle che indicano l’auspicio di “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura”.

Davide Tondani