Usi alimentari di carni, pesci e formaggi nelle gabelle lunigianesi

Dalla lezione di Emilia Petacco all’UniTre di Pontremoli spunti importanti per una storia dell’alimentazione nel passato

La cottura del pane

Un tuffo nel passato, una relazione densa di informazioni quella tenuta il 21 marzo da Emilia Petacco per i soci dell’Università delle Tre Età, sezione di Pontremoli-Lunigiana. Non notizie pressappoco ma puntuali citazioni dai tanti documenti che la studiosa raccoglie con appassionata curiosità da più fonti: statuti, catasti di terreni a coltura e a pascolo, registri di flussi mercantili, tariffe di gabelle, sistemi di pesi e misure variati da zona a zona, archivi privati di gestione economica di famiglie padronali: una per tutte i Taddei di Ponzano Magra.
Una fonte speciale è il Codice Pelavicino nell’archivio diocesano di Sarzana. Qui il documento 1188 riporta note di un cuoco sulle carni, spiega come preparare la trippa con raccomandazione di lavarla con massima cura, renderla bianchissima e cuocerla a lungo. Altri documenti indicano le competenze che deve avere il beccaio (macellaio) riguardo ai tagli della carne, come e dove conservarla quando ancora non c’era la nostra catena del freddo, i prezzi, i criteri di macellazione, il controllo scrupoloso che l’animale da macellare fosse sano, verifica fatta con testimoni terzi.
Negli Statuti di Sarzana datati 1229 e 1231 si presenta il pranzo di nozze domestico e si suggerisce come presentarlo e servirlo ai commensali. Anche queste note di dettaglio servono a smentire il luogo comune del “buio”, selvaggio Medioevo: Bonvesin de la Riva a fine Duecento scrive il poemetto “Cinquanta cortesie da tavola” che espone il modo di stare a tavola con eleganza e con decoro: compostezza del corpo, non fare rumore col cibo in bocca, masticare lentamente, non parlare di tristezze.
Nella sua lezione la dottoressa Petacco ha dato molte piacevoli notizie sugli animali allevati secondo natura e in quasi tutte le famiglie per il proprio consumo: pecore, capre, bovini, maiali e maialini da latte. Il prezzo era calmierato da un’autorità, calibrato sulla qualità dei tagli della carne, variabile a seconda del pascolo in terre soleggiate o meno e della stagione di macellazione.
Anche chi non possedeva terra allevava pecore, capre o il maiale attingendo nutrimento dalle terre comuni, dalle spigolature, dai tempi di libero accesso ai boschi.
Del maiale, come della gallina, non si buttava via niente. Acquistato piccolo alle fiere, veniva nutrito con un “brodo” a crudo di farina di castagne, semola, farina di ghiande, arrivava fino a due quintali pulito, ma l‘unità di misura era il”peso” corrispondente a kg. 8,33. Era macellato a luna buona, dopo il primo quarto, altrimenti tutto andava a male, si evitava la luna nuova anche per le semine, le preparazioni di confetture, i travasi: chissà se vere queste influenze delle fasi lunari! Il pregio era l‘alto strato di lardo (oggi invece fuori mercato), era il condimento per tutto l’anno, per il minestrone quotidiano e per i pochi arrosti. Insaccato in tanti pezzi il maiale era conservato col sale e le spezie (dette droghe): pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano: arrivavano dall’Oriente al porto di Livorno.
Il latte era usato per fare formaggi, che erano tutti di buona qualità, non per il consumo liquido. Una nota di colore: viaggiatori inglesi del Settecento passando in Lunigiana sono a disagio perchè non trovano latte per il loro rituale tè alle cinque della sera! Regole precise erano stabilite per il commercio dei prodotti caseari, con pedaggi anche per attraversamento dei fiumi che a volte erano confini di Stato. Carne era anche procurata con la caccia, gli statuti stabiliscono i diritti e limitano i tempi di apertura per evitare l’estinzione di specie: dal primo febbraio al 30 aprile era vietata, mai si dovevano usare mezzi sofisticati per prendere lepri, starne, pernici, beccacce.
Nelle “Effemeridi di Aronte lunense” del poeta fivizzanese Luigi Fantoni relative agli anni 1779-1780 si legge che in Lunigiana la caccia era praticata per mantenere il gusto raffinato di pochi e per diletto. Anche la pesca dava sostentamento con pesci di acqua dolce: trote, anguille (catturate con nasse nei canali di irrigazione e particolarmente nelle gore o “biedali” che portavano forza motrice ai mulini ad acqua), carpe, lucci, scaglioni, barbi. A mani nude venivano presi in piccoli canali granchi di acqua dolce, ottimi in tavola per cibo sano e medicinale. Pesci di mare solo baccalà (un rito prepararlo per il pranzo nei campi durante la vendemmia) e lo stoccafisso. Il suolo agricolo da Pontremoli in giù per tutta la valle e l’estuario di congiunzione tra Magra e Vara era ben coltivato a varietà di grani, ortaggi e frutta.

Maria Luisa Simoncelli