Pasqua in tavola: note di tradizione

L’uovo, il simbolo del mistero del Cristo risorto e della nostra speranza

Marzo è il mese delle uova, le galline ne fanno in abbondanza più di ogni altro tempo dell’anno. Pasqua dell’uovo era chiamata la Domenica della Resurrezione di Gesù dal sepolcro: l’uovo è il simbolo del mistero del Cristo risorto e della speranza che anche noi torneremo vivi dopo la morte. La tradizione di consumare uova nel tempo pasquale è antica nel mondo cristiano, l’uovo è come un seme che ha in potenza dentro di sé la luce di una nuova vita, di nuove creazioni; carico di questa simbologia lo troviamo raffigurato nelle opere d’arte: incanta l’armonia, la bellezza della pala della cosiddetta Madonna dell’uovo di Piero della Francesca alla Pinacoteca di Brera a Milano.
Troviamo uova di porcellana o in marmo, ma soprattutto l’uovo lo mangiamo; che Pasqua sta arrivando lo abbiamo avvertito dalla esposizione massiccia nei negozi di golose uova di cioccolato. Donare uova vere di gallina, benedette in chiesa la mattina del sabato santo, è tradizione antica, accertata già nel XII secolo e conservata nel tempo. Le differenze sociali però si manifestavano: i nobili, i ricchi si scambiavano – e continuano a scambiarsi – uova d’oro o d’argento, abbellite di gemme, perle e smalti.

La Pala di Brera o Pala Montefeltro di Piero della Francesca (1472-1474)

Capolavori bellissimi sono le uova ideate dal 1885 al 1917 dall’orafo parigino Fabergé su commissione dello zar Nicola II: le uova originali sono 69 in stile rococò e nel contemporaneo “art nouveau” in materiali preziosi e arricchite all’interno di sorprese stupefacenti, le originali sono conservate in musei e collezioni private.
I poveri, i figli del mezzadro, ha scritto Giambattista Martinelli nel suo libro “La cucina del mezzadro” (Edizioni del Corriere Apuano, Pontremoli, 1999) mangiavano a Pasqua uova fatte bollire in acqua con erbe che davano colore, le portavano in un cestino in chiesa a benedire, le facevano anche rotolare in gare semplici tipo gioco delle bocce.
A Vignola, ad esempio, la mattina di Pasqua, i giovani maschi, dopo la Messa e osservato il precetto di confessarsi e fare la Comunione almeno a Pasqua, si ritrovavano in una piana erbosa e gareggiavano, la vittoria era per chi ne rompeva di meno. Il giovedì santo, sempre a luna vecchia, chi aveva vino in bigoncio lo imbottigliava per soavi futuri brindisi.
Pasqua in tavola: era festa solenne per tutti, veniva soddisfatto il palato, a cominciare dalla colazione con frittata col salame e la crescente fresca, nostalgico piacere di pane quotidiano per chi se lo poteva permettere al posto della focaccia di farina di castagne, la “patona” dei poveri Al pranzo pasquale e in quello di nozze preparato in famiglia era inevitabile la gallina lessa e brodo con taglierini all’uovo. Il massimo di cibo ricercato era la gallina in galantina, richiedeva una lunga e abile preparazione, disossata si riempiva con impasto di magro di vitello macinato, prosciutto crudo, mortadella di Bologna, lingua salmistrata, pistacchio, strisce di carne di gallina, noce moscata, carote con effetto colore. Cotta, era messa sotto peso per renderla compatta e poi tagliata a fette sottili accompagnata da insalata russa.
L’agnello è altro simbolo della Pasqua, già di quella ebraica che fa memoria del “passaggio” dalla schiavitù in Egitto alla libertà; nella quotidiana liturgia cristiana siamo invitati alla cena dell’agnello.
Molti gli agnelli sacrificati, una ricetta seguita in Lunigiana è l’agnello prima passato nei testi e poi messo in casseruola, la doppia cottura è necessaria per mantenerlo più morbido e saporito. Ma da leccarsi le dita sono anche le tenere bistecchine di agnello di Zeri. Bisogna chiudere un pranzo, ricco come quelli di nozze, con un dolce: oggi è colomba e uova di cioccolato di produzione industriale, ma non reggono il confronto col “latte in piedi”, o torta di latte preparata per la mattina di Pasqua.
Prima del rinnovamento liturgico definito dal Concilio Vaticano II, il tempo della Quaresima era vissuto in modo più rigido come tempo della penitenza, a cominciare dal divieto di mangiar carne il venerdì. Il mezzadro non avvertiva il sacrificio perché mangiava poca carne, per i signori invece era privazione molto fastidiosa, abituati come erano a mangiar carne sempre e ritenevano poco onorevole mangiar da magro, cioè verdure.
Le campane sono la voce di una comunità: esprimono i lieti eventi ma anche i pericoli e la morte. Dalla Messa “in coena Domini” del giovedì santo al Gloria del sabato santo alle 10 si “legavano le campane” in segno di lutto per la passione e morte di Gesù. Per chiamare in chiesa i fedeli si faceva “gracchiare” un oggetto in legno con incastri dentati detto in dialetto “grac’la. Papa Pio XII riportò il triduo pasquale originario con veglia nella notte tra il sabato e la domenica.

M.L.S.