
Il governo punta alle riforme istituzionali dell’autonomia differenziata e del presidenzialismo

Sono tornate. E probabilmente, anche questa volta, destabilizzeranno la vita politica italiana. Sono le riforme istituzionali che la nuova maggioranza ha annunciato di volere promuovere. La coalizione capitanata da Giorgia Meloni ha messo sul piatto due temi – presidenzialismo e autonomia regionale differenziata – destinati a cambiare, se attuati, il volto della Repubblica e il patto costituzionale su cui essa si regge dal 1948. Una vera e propria “grande riforma”, come quelle di cui si è discusso a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso ogni dieci anni circa, prima con le commissioni bicamerali Bozzi (1983), De Mita-Iotti (1992) e D’Alema (1997), tutte naufragate, e poi con le due leggi di revisione costituzionale approvate dal Parlamento a maggioranza nel 2006 e nel 2016, due progetti nella sostanza non troppo diversi nel rafforzare i poteri del governo e chiudere l’epoca del bicameralismo perfetto, entrambi sonoramente bocciati nel successivo referendum confermativo.

Nel mezzo, la riforma del titolo V della Costituzione, nel 2001, è stata l’unico episodio di revisione ad andare in porto, traghettando l’Italia verso un regionalismo pasticciato e conflittuale – i numerosissimi ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione di potere tra Stato e Regioni lo testimoniano – e inaugurando il precedente delle riforme della Costituzione approvate da una maggioranza risicata e non trasversale. Nella scorsa legislatura di una organica riforma istituzionale non si è mai parlato. Troppo vicine nel tempo, evidentemente, le brucianti sconfitte di Berlusconi e Bossi prima e di Renzi poi, per andare oltre alla riduzione del numero dei parlamentari, che il Movimento 5 Stelle è riuscito a fare approvare più che per reale convinzione delle altre forze parlamentari, per la stipula del “contratto” con la Lega nel Conte I e la disarmante accondiscendenza del Pd alla nascita del Conte II.

Per Meloni – e prima di lei per tutta la destra da Fini in poi – il presidenzialismo è la madre di tutte le riforme. Ne ha parlato nella conferenza di fine anno, ne ha delineato le caratteristiche nel programma elettorale: elezione diretta e a suffragio universale del presidente della Repubblica, che deve avere almeno 40 anni ed essere candidato da 200 mila cittadini o da un gruppo parlamentare; il presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri e rimane in carica per cinque anni, con la possibilità di una sola rielezione. Chiara anche la strategia, delineata dal Ministro dei Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani: “Se c’è un terreno comune su cui ragionare” con le opposizioni, il semipresidenzialismo può essere “la formula che meglio si attaglia al nostro Paese; se la risposta che ci arriverà sarà l’ostruzionismo, allora faremo le nostre scelte come promesso agli elettori”.
Il terreno comune su cui ragionare c’è: con Forza Italia e con Italia Viva, sicuramente; con il M5S, che si è detto aperto a confronti su come rafforzare la partecipazione popolare; con la Lega, tiepida sul tema, ma disposta a non porre veti in cambio dell’autonomia differenziata. E con il PD?
I democratici appaiono come i più intransigenti oppositori alla riforma proposta da Meloni, ma i partiti che lo hanno generato hanno sostenuto l’elezione indiretta del primo ministro ai tempi della Bicamerale D’Alema e hanno promosso l’elezione diretta e i larghi poteri dei sindaci e dei presidenti di regione. Ed è stata partorita nel PD l’idea dell’elezione del “sindaco d’Italia”, mentre la ministra per le Riforme del governo Renzi parlava esplicitamente di presidenzialismo come orizzonte finale da raggiungere. Insomma, per i Democratici, alle prese con una complicata partita congressuale, un’eventuale opposizione all’elezione diretta del capo del governo sarà complicata da gestire, dopo aver favorito nei decenni un clima pro-presidenzialismo. Per il principale partito dell’opposizione sarà difficile da affrontare anche la seconda partita, quella dell’autonomia differenziata: Regioni che, sulla base dell’articolo 116 della Costituzione, possono scegliere di gestire in proprio nuove materie (e le necessarie risorse economiche) ad oggi di competenza governativa.
Difficile perché questa sorta di secessione delle regioni ricche è resa possibile proprio dalle modifiche al titolo V che il centrosinistra approvò nel 2001 per mostrarsi come il concreto fautore del federalismo perseguito dalla Lega Nord. E poi perché assieme alle leghiste Lombardia e Veneto è stata l’Emilia-Romagna del candidato favorito alla segreteria Pd, Bonaccini, a chiedere maggiore autonomia a Roma. Fratelli d’Italia è molto tiepida rispetto a questa proposta, data la sua matrice nazionalista e quindi centralista. Ma in cambio del presidenzialismo potrebbe dare il proprio ok alla bozza d’intesa tra governo e Regioni proposta dal ministro Calderoli, con o senza la preventiva adozione dei livelli essenziali delle prestazioni che tutte le regioni devono garantire, come richiesto ad esempio dal M5S e da Italia Viva. (Davide Tondani)