Le insolite elezioni settembrine aggiungono difficoltà al disorientamento in cui la politica annaspa da anni
Per la prima volta nella storia della Repubblica, gli italiani saranno chiamati al voto per l’elezione del Parlamento in settembre anziché nel consueto periodo primaverile. A tre settimane circa dal voto, la campagna elettorale procede senza acuti. I grandi temi su cui costruire una piattaforma per il futuro del Paese – il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali, l’inflazione e la crisi energetica, gli scenari internazionali – paiono essere relegate in secondo piano o al limite oggetto di mere dichiarazioni di principio su provvedimenti tampone che dovranno essere presi. Sulla capacità di visione delle forze politiche in campo non c’è da stupirsi.
Si procede dunque con slogan già sentiti in tante elezioni passate (la tassazione piatta, il blocco navale contro gli immigrati, le pensioni a mille euro: i sempreverdi della destra) o con messaggi generici al limite del nulla (“Vincono le idee”; “con l’Europa”; “prima l’ambiente” sono i protagonisti della campagna comunicativa del PD) o ancora con sparate populiste che non riguardano solo i 5 Stelle ma anche il cosiddetto Terzo Polo, così battezzato a dispetto del fatto che sia sesto in quasi tutti i sondaggi.
L’esito delle elezioni apparentemente è chiaro: secondo la quasi totalità degli osservatori la coalizione di destra potrebbe ottenere la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Da lì a dire che Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e alleati minori possano formare un governo capace di durate 5 anni, ce ne passa: troppe le tensioni tra i tre leader e per nulla scontato il fatto che Berlusconi e Salvini possano tenere compatti i loro gruppi parlamentari in un governo a guida sovranista.
È per questo che c’è chi spera ancora in una riedizione in tempi brevi di nuove larghe intese: lo spera Calenda, sostenitore di una fantomatica agenda Draghi (ma il banchiere sarà ancora disponibile?), lo spera Renzi, attratto dall’idea di essere ancora ago della bilancia che fa nascere e cadere governi, lo sperano Enrico Letta e larga parte della dirigenza del Partito Democratico, nella sua veste oramai consolidata di partito centrista, responsabile e saldamente al governo da 11 anni, esclusa la parentesi del Conte I.
Ma se questi sono solo pronostici facilmente confutabili sugli equilibri e sugli sbocchi della XIX legislatura, di sicuro ci sono i primi effetti della riduzione dei parlamentari unitamente al ritorno al voto con la complicata legge elettorale già sperimentata nel 2018. La campagna di antipolitica da tutti attribuita al Movimento 5 Stelle, ma in realtà lanciata molto prima – qualcuno ricorda il campione di vendite “La casta” dei giornalisti del Corriere della Sera Stella e Rizzo? – è sfociata nel taglio di 345 parlamentari, una riduzione del 36% approvata dal 70% dei cittadini chiamati nel settembre 2020 a referendum confermativo, dopo che i grillini imposero ai partner di coalizione dei loro due governi la riforma costituzionale. La riduzione della rappresentanza paventata dai contrari alla modifica sta sortendo fin d’ora i suoi effetti.
Se per esempio la Toscana, nel 2018, eleggeva 18 senatori e 38 deputati, il 25 settembre staccheranno il biglietto per Roma solo 12 senatori e 24 deputati. A subire le conseguenze dei 20 parlamentari in meno sono le aree meno densamente popolate, come la Lunigiana. Il problema, però, non è solo geografico; anche la rappresentanza delle varie categorie sociali ne esce impoverita: la scomparsa quasi totale dalle liste di personaggi dei mondi della cultura, della società civile o delle attività produttive è abbastanza eloquente.
L’elezione sarà dunque affare del solo ceto politico, favorito dal potere di nomina dei capi partito sancito dalla legge elettorale, approvata nel 2017 con voto di fiducia dalla maggioranza di centrosinistra e da Forza Italia, con il dichiarato intento di isolare il M5S, che le successive elezioni le vinse diventando la forza imprescindibile della legislatura. Il meccanismo elettorale, oggetto in queste settimane degli strali di quel PD che lo promosse, prevede un voto in un collegio uninominale (chi prende un voto in più vince) e un voto ad una delle liste collegate al candidato uninominale. Questo secondo voto prevede un riparto proporzionale dei seggi, ma l’elettore non può esprimere preferenze e gli eletti di ogni partito dipendono dall’ordine in cui sono stati iscritti nella lista.
Gli accordi politici per un cambiamento della legge elettorale parallelamente alla riduzione dei parlamentari sono stati disattesi; di fatto il potere di nomina del parlamentare è quasi esclusivamente nelle mani di pochi capi partito, come accade dai tempi della legge Calderoli: non il miglior biglietto da visita per una classe politica alle prese con un deficit di credibilità altissimo tra i cittadini: un indice di fiducia che nelle previsioni di molti potrebbe tradursi in un tangibile aumento dell’astensionismo come primo risultato della chiamata al voto anticipato.
Davide Tondani