
13 marzo 2013. Nove anni fa Jorge Mario Bergoglio diventava Francesco

Prima dell’Angelus di domenica scorsa, che coincideva con il 9° anniversario del suo pontificato, Francesco ha pronunciato una catechesi a partire dal brano evangelico letto nella messa del giorno: la trasfigurazione così come è raccontata nel Vangelo di Luca. In maniera più o meno esplicita ha fatto un riferimento alla ricorrenza, parlando del sonno dei discepoli presenti sul monte e paragonandolo al sonno che ci coglie alla fine della giornata, quando magari vorremmo pregare o stare in famiglia e la stanchezza ci toglie la forza per farlo. “Con le nostre sole forze non ce la facciamo– ha spiegato il Pontefice – abbiamo bisogno della luce di Dio, che ci fa vedere le cose in modo diverso”.
Pur in mancanza di riferimenti personali espliciti, le parole pronunciate da Francesco definiscono in modo abbastanza chiaro il compito che il Papa si è dato al momento della sua elezione: svegliare la Chiesa (e anche il mondo) dal torpore che ha anestetizzato la spinta “rivoluzionaria” insita nel Vangelo. Un compito non facile, di cui difficilmente Bergoglio (e la nostra generazione) potrà vedere i frutti ma che, di certo, già ora sta lasciando segni inequivocabili.
Pur con sofferenza, in questi 9 anni non ha avuto paura di affrontare temi difficili per la Chiesa stessa. La lotta agli abusi, prima di tutto, attraverso incontri nei quali ha chiesto perdono per tutta la Chiesa ed ha cercato di avviare nuove procedure mirate ad aumentare la trasparenza su certi fatti. Vanno in quel senso il Motu proprio nel quale vescovi e superiori religiosi sono invitati a non esitare nel prendere decisioni adeguate quando siano informati di abusi, così come i provvedimenti di dimissione dallo stato clericale di personaggi di spicco. Ripetuti gli interventi contro il clericalismo, che sostituisce l’affermazione del potere alla pratica del servizio; gli inviti ad evitare di cullarsi nella pianura rappresentata dalla mediocrità o nella facilità di un cammino in discesa per trovare la forza e il coraggio di affrontare la via del bene, in faticosa salita. Spesso ribadita la distinzione tra l’errore e la persona che sbaglia, che mai deve essere emarginata ma accolta con misericordia dalla comunità ecclesiale.

L’avvio di nuove strutture di aiuto nel governo della Chiesa rende conto di una volontà di avviare forme di partecipazione che, senza mettere in discussione il primato di Pietro, rendano sempre più comprensibili le decisioni finali del Magistero. Una grande lezione di fede: non affermare l’autorità attraverso la distanza dalla base e l’impenetrabilità dell’apparato ma promuovere l’autorevolezza che trova fondamento nel deposito stesso della dottrina. Ben sapendo che se questa, essendo sostanza, non può mutare, la forma attraverso la quale viene proposta è più volte mutata nel corso del tempo con il variare delle sensibilità. Se della pandemia rimarranno impressi le sofferenze e i disagi da essa causati, il primato dei ricordi, ne siamo certi, andrà a quella sera del 27 marzo 2020, che vide il Papa solo, nella vastità del sagrato della basilica di S. Pietro, pregare in vicinanza di spirito con i milioni di fedeli che partecipavano all’evento attraverso i mezzi televisivi. “La tempesta – disse il Papa nell’omelia – smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”. E ancora: “Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare”. Poi, rivolgendosi al Signore: “Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: Voi non abbiate paura”.
Il tema che ha caratterizzato questi 9 anni di pontificato, ponendosi in prima fila in queste ultime settimane, è quello della pace, che ha segnato tutti i viaggi apostolici, in particolare quelli realizzati nelle “aree calde” del pianeta. Costante l’appello a respingere la violenza, a rinunciare all’uso delle armi per risolvere i contrasti, a dare spazio all’idea di umanità e di fratellanza come regola dei rapporti tra stati e anche tra individui.
Questo Papa, “chiamato quasi dalla fine del mondo”, che si è fatto amare fin dalle prime parole pronunciate dalla loggia centrale della Basilica Vaticana – “Fratelli e sorelle, buonasera!” – merita il saluto a lui indirizzato dai vescovi italiani che, impegnandosi “ad operare per la pace e la fratellanza”, gli hanno rinnovato la loro “vicinanza fedele”; un impegno e una dichiarazione che ogni credente può condividere.
a.r.