
Le “terre rare” all’origine dei sanguinosi confitti in quella parte di Africa
Spesso gli auspici della “transizione verde” non danno conto della sofferenza pagata per l’estrazione di “terre rare” e altri “metalli critici” necessari ai dispositivi hi-tech per la produzione di energia “pulita” degli impianti eolici e fotovoltaici e delle batterie delle auto elettriche. Strategico è il sistema di accaparramento nei Paesi ricchi di queste materie prime, dove i lavoratori, pagati pochissimo, non sono tutelati e i danni all’ambiente sono ignorati.
Non è esagerato, quindi, sostenere che i minerali estratti in quel modo per lo sviluppo del Primo Mondo sono tinti di rosso sangue. Questo vale anche per il Congo, vittima della maledizione delle enormi ricchezze naturali presenti nel suo territorio. Già a inizi ’900 il Paese pagò con 10 milioni di morti le atrocità dello schiavismo belga legato alla domanda di linfa di gomma per le auto.
La scoperta di giacimenti nel distretto del Katanga mutò l’oggetto del desiderio dell’Occidente, ma non lo sfruttamento. Nemmeno con l’arrivo dell’indipendenza perché dal 1960 a oggi – passando per Mobutu e Kabila – il Paese ha avuto governi dotati di poteri assoluti che hanno cercato di ottenere il massimo dai diversi partner, ultima la Cina. Nel frattempo si è avuta l’esplosione della domanda di cobalto per le batterie delle auto elettriche, accompagnata da quella del coltan, usato per i condensatori elettrolitici. Questi, tutti assieme, sono i motivi di fondo all’origine delle guerre dei Grandi Laghi, che hanno coinvolto anche i distretti di Kivu, al confine con Ruanda e Uganda, e dagli anni ’90 a oggi, hanno mietuto 8 milioni di morti. Un groviglio di contrasti etno-tribali, bande armate filo e anti-governative, eserciti regolari, milizie secessioniste che l’Onu non riesce a dipanare e che, per tutto questo tempo, hanno tenuto il Paese in una situazione di guerra permanente.
In questo quadro si colloca anche l’agguato nel Nord Kivu che il 22 febbraio 2021 costò la vita all’ambasciatore Attanasio, al carabiniere Iacovacci e all’autista Milambo. Situazione che giova anche a Ruanda e Uganda che acquistano il coltan dai signori della guerra e lo immettono nel mercato globale, permettendo alle multinazionali di eludere le norme che vietano l’uso di materie prime provenienti da zone di guerra. Si pensi che, per 12 ore di scavo giornaliero, il salario è di 50 euro mensili e il prezzo per un chilo di materiale raffinato è 10 mila volte superiore.
Per non parlare delle morti nelle miniere, delle intossicazioni e dei danni all’ambiente. La speranza sta nei movimenti d’opinione che inducano le aziende e le persone a puntare sulle 4R: riuso, riciclo, riparazione e riduzione, in netto contrasto con gli orientamenti di mercato affermatisi negli ultimi decenni.
G.C. – Agensir