“Dall’ Egitto ho chiamato mio figlio”

Gesù, deposto in una mangiatoia, rimase a Betlemme per almeno 33 giorni. La fuga in Egitto e la strage degli innocenti manifestano l’opposizione delle tenebre alla luce: “venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”

Renato Guttuso, “Fuga in Egitto” (1983). Varese, Sacro Monte

“Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo… Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”.
Il racconto della fuga in Egitto si trova soltanto nel Vangelo di Matteo nel secondo capitolo; nel Vangelo di Luca, sempre al secondo capitolo, si narra della nascita di Gesù deposto in una mangiatoia e si sottolinea che rimase a Betlemme per almeno 33 giorni, quelli richiesti per la purificazione rituale della madre nel caso avesse partorito un figlio maschio come è prescritto nel Levitico (12, 3-5). Vari critici, preso atto che il racconto dei Magi e della fuga in Egitto è solo in Matteo, hanno ritenuto che l’intento di quel Vangelo non sia storico o di riportare la cronaca di eventi reali, ma soltanto teologico.
È chiaro l’intento in Matteo di associare Gesù alla profezia di Osea 11,1 e di attestare un parallelo tra l’antico Mosè e Gesù stesso come il nuovo Mosè, ma non è motivo sufficiente per dichiarare che i racconti di quei fatti non siano relativi a eventi realmente avvenuti. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al riguardo, nel confermare quei fatti, dice: “La ‘fuga in Egitto’ e la strage degli innocenti manifestano l’opposizione delle tenebre alla luce: ‘Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto’ (Giovanni 1,11). L’intera vita di Cristo sarà sotto il segno della persecuzione. I suoi condividono con lui questa sorte. Il suo ritorno dall’Egitto ricorda l’Esodo e presenta Gesù come il liberatore definitivo” (530).
Tutta una lunga tradizione, che ha origini antichissime, ne confermerebbe la veridicità. Sembra che l’Egitto fosse spesso rifugio per ebrei in difficoltà. All’epoca di Gesù una nutrita colonia di ebrei perseguitati dimorava in Egitto a Maratea oggi “El Matariya”, un quartiere dell’antica città di Eliopoli. Della fuga in Egitto si parla molto nei vangeli apocrifi, i quali, anche se non hanno l’autorità di Parola rivelata, sono una testimonianza di una antichissima tradizione che descrive, anche in modo immaginifico, la fuga in Egitto. È un fatto che a Maratea, oggi, si venera la “fontana della Vergine” e “l’albero di Maria”.

Giotto, “Fuga in Egitto” (1303 – 1305 circa), particolare. Padova, Cappella degli Scrovegni

La fuga in Egitto della Sacra Famiglia per scampare all’oppressione del re Erode è un cammino che si snoda, secondo la tradizione, tra almeno 25 luoghi. Le autorità egiziane chiedono che sia dichiarato patrimonio mondiale dell’Unesco. Ma il testo di Matteo ci riporta anche ad altre riflessioni. Il Figlio di Dio condivide le condizioni degli ultimi. L’essere perseguitato e l’essere costretto alla fuga in terra straniera indica una condizione disgraziata propria di troppi uomini e di troppi popoli.
L’esodo dalle proprie radici, non per volontà, ma per costrizione a causa di guerre, carestie o fame, attraversa tutta la Scrittura. Non è una novità del nostro tempo. Gli occhi di tutti sono pieni di scene odiose di maltrattamenti di esseri umani o di barconi più o meno alla deriva. I muri si alzano in ogni dove. Ci sono i muri visibili alzati dai nazionalismi rinascenti, dagli egoismi di chi ha paura dello “straniero”, da chi grida “prima gli americani” o “prima gli italiani”.
Purtroppo la memoria è corta. La Sacra Famiglia che va in esilio in Egitto, non è andata a fare una gita di piacere. La Bibbia è intrisa di inviti all’accoglienza del “forestiero”, dello straniero. Gesù lo ricorderà non a caso nel capitolo 25° del Vangelo di Matteo: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt. 25,35). Perché come Israele anche noi dobbiamo ricordare : “non ti approfittare del gherim (straniero) e non opprimerlo, perché voi stessi foste gherim (stranieri) in terra d’Egitto” (Es 22,20). Come l’orfano e la vedova, così i gherim sono sottoposti a prevaricazioni di ogni tipo, con l’aggravante che, in quanto stranieri, rischiano di essere considerati una sorta di pericolo, un vero e proprio nemico.
Sia i profeti che lo stesso Gesù accomunano spesso gli stranieri agli orfani e alle vedove, gli anelli più indifesi della catena sociale. Ma anche noi siamo stati da gherim. Se qualcuno avesse la pazienza di indagare come erano trattati gli italiani in America all’inizio del ‘900, si renderebbe conto che i nostri “padri” emigrati non hanno avuto sorte, e considerazione, migliore di molti che abitano oggi il nostro Paese.
L’insistenza dell’Antico Testamento, sulla protezione dello “straniero” da’ l’evidenza di un problema sempre presente. Ieri come oggi. Papa Francesco a Lesbo ha parlato ai profughi, ma le stesse parole potrebbero essere rivolte ad ogni Paese e ad ogni straniero che vi abita. “Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura di voi non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono paura e divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo”.
“È facile trascinare l’opinione pubblica istillando la paura dell’altro; perché invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio? Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica!”. Ma è più facile costruire muri!

Giovanni Barbieri