Cop26: contro i cambiamenti climatici decisioni  fragili e compromessi al ribasso

Conclusa a Glasgow la ventiseiesima conferenza internazionale sul clima

(Photo by ALAIN JOCARD / AFP – ANSA/SIR)

Ci sono volute 24 ore in più di quanto programmato inizialmente, ma sabato 13 novembre a Glasgow i delegati dei quasi 200 Paesi hanno dato via libera al documento finale del Cop26, la “Conference of parts” (conferenza delle parti) dei paesi che nel 1992 siglarono alla Conferenza di Rio la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e che dal 1995 si riuniscono in vertici annuali. Il vertice numero 26 era particolarmente atteso.
Da un lato per la maggiore consapevolezza globale della necessità di agire con urgenza contro il cambiamento climatico; dall’altro per il rientro degli Stati Uniti al tavolo degli accordi sul clima dopo che Trump, nel 2017, ritirò la firma statunitense dagli accordi raggiunti alla Cop21 di Parigi, nel 2015.
A fine lavori il presidente della Cop26, Alok Sharma, il membro anglo-indiano del governo Johnson che ha presieduto il vertice, ha parlato di “vittoria fragile”, scusandosi con la voce rotta per il fallimento “all’ultimo miglio” della trattativa sul carbone: proprio l’India in cui Sharma è nato è riuscita a imporre nel testo finale la “riduzione graduale” anziché la “eliminazione graduale” del carbone, il più inquinante dei combustibili fossili che stanno surriscaldando l’atmosfera terrestre.

(Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

L’accordo complessivo trovato a Glasgow assomiglia molto al classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Se si vuole guardare il bicchiere mezzo pieno, il Patto di Glasgow annovera il traguardo fissato al 2030 per una riduzione delle emissioni e la conferma dell’obiettivo di limitare a 1,5 gradi centigradi il riscaldamento globale, rispetto ai livelli pre-industriali, traguardo per il quale sono necessarie significative riduzioni delle emissioni globali di gas serra; comprende l’accordo bilaterale sul clima tra Usa e Cina, i due grandi Paesi emettitori che finora sembrava giocassero solo l’uno contro l’altro; instaura percorsi di riduzione delle emissioni da rivedere tra un anno e non tra cinque come prevedevano gli Accordi di Parigi.

(Photo by Oli SCARFF / AFP – ANSA/SIR)

Ma per altri aspetti il vertice è stato anche ricco di delusioni: la neutralità climatica dovrà essere raggiunta non entro il 2050, come chiedevano Unione europea e Stati Uniti ma, genericamente, attorno alla metà del secolo, con Cina e Russia che hanno parlato del 2060, India e Indonesia addirittura del 2070; i sussidi ai combustibili fossili dovranno essere ridotti e non rimossi.
Greta Thunberg e i giovani di Fridays for Future hanno giudicato la conferenza di Glasgow un grande “bla bla bla”, giudizio severo ma comprensibilmente dettato dalla delusione della prima generazione davvero impegnata sul tema del cambiamento climatico.
Più realisticamente, in Scozia si è assistito all’ennesima contrapposizione tra paesi in stadi diversi di sviluppo: l’UE ha provato a condividere obiettivi ambiziosi e scadenze ben definite, trovando parzialmente sponda negli Stati Uniti, ma si è trovata di fronte India e Cina, grandi inquinatori con grande forza politica. Una partita, quella del clima, complicata anche dal punto di vista etico.
È difficile dare torto a India e Cina per chi vive in quel Nord del mondo che ha inquinato a lungo e che in piccola parte ha smesso di farlo appaltando proprio a questi paesi le produzioni più nocive per l’ambiente. Ma è altrettanto difficile accettare un concetto di giustizia climatica intesa non come risarcimento dei danni provocati dal cambiamento climatico, ma come “pari diritto a inquinare” per altri cinquant’anni, compromettendo ogni sforzo per rendere il Pianeta ancora vivibile per le prossime generazioni.

Dall’Italia pochi impegni e ambiguità sul nucleare

Il Presidente Mario Draghi a Glasgow (Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

Che ruolo ha giocato l’Italia a Glasgow? Il ministro per la transizione ecologica Cingolani, a margine della conferenza, è tornato a polemizzare con il mondo ambientalista, in particolare con Greta Thunberg e la sua accusa agli Stati di mettere in scena uno sterile “bla bla bla”, replicando che una trattativa multilaterale tra 190 Stati è un complesso esercizio di democrazia. Ma la delegazione italiana non pare avere brillato per il suo slancio verso la transizione ecologica.
Durante la Cop26 Germania, Austria, Lussemburgo, Portogallo, Danimarca, Irlanda e Spagna hanno sottoscritto una dichiarazione contro l’inserimento del nucleare, da parte della UE, tra le fonti di energia a basse emissioni.

(Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

L’Italia non ha firmato questo documento una scelta che assume quindi i connotati di un implicito assenso alla lettera inviata a metà ottobre da 12 Stati membri – Francia capofila – alla Commissione europea per promuovere l’uso del nucleare nella “transizione verso la neutralità climatica”.
L’Italia ha poi aderito al gruppo di 11 paesi che promuovono l’iniziativa “Beyond Oil and Gas Alliance” (Boga), una proposta di Danimarca e Costa Rica per puntare alla graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas. “L’Italia su questo programma è perfino più avanti e abbiamo le idee chiare” ha dichiarato il Ministro Cingolani, ricordando il piano nazionale per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita.
Ma dei tre livelli di adesione al gruppo, l’Italia ha scelto il meno impegnativo, quello che non richiede passi concreti, come ad esempio la riforma delle sovvenzioni alle energie fossili o lo stop a nuove concessioni e licenze per la produzione e l’esplorazione di petrolio e gas (un tema che coinvolge ad esempio le trivellazioni in Adriatico), ma solo impegni generici di collaborazione su questi temi.

Davide Tondani