
Lascia la diocesi di Volterra dove era entrato nell’estate 2007
Mons. Alberto Silvani si appresta a lasciare Volterra: lo ha comunicato ufficialmente ai fedeli con una lettera pubblicata sul settimanale diocesano “L’Araldo” dopo aver compiuto, il 6 settembre scorso, i 75 anni. A Volterra dove aveva fatto il suo ingresso quale nuovo Vescovo della diocesi nell’estate 2007: un lungo periodo, durante il quale, tuttavia, non ha fatto mai mancare la sua presenza nel nostro territorio.

Eccellenza, si appresta a tornare tra noi?
Sono grato alla redazione del Corriere Apuano che mi offre la possibilità di entrare in relazione con amici, collaboratori e conoscenti che ho lasciato nella Diocesi di Massa Carrara-Pontremoli – esordisce – l’occasione è ancor più opportuna perché in effetti mi preparo a rientrare.
Il nostro territorio la aspetta. Ha già deciso dove?
Due preti della Diocesi di Massa Carrara – Pontremoli mi hanno offerto accoglienza. Non è cosa da poco, in questi tempi. Tornerò con i limiti dovuti all’età, come colui che chiede più di quanto può dare. Ma così è il ciclo della vita, si sa da dove si è partiti, ma non quello che segue. Sono stato ordinato per il servizio alla Diocesi di Pontremoli, poi il servizio si è allargato a Massa, poi a Volterra. Questa estate una mia parrocchiana che ho incontrato a Fivizzano mi ha detto: “Ma perché non è rimasto a Gassano? Non le facevamo mancare niente”. Ci sarei rimasto più che volentieri, se non mi fosse stato chiesto di fare altro.
Ne è passato di tempo da quel 2007: prima la consacrazione nel Duomo di Pontremoli, poi l’ingresso a Volterra. Lei era da poco parroco di Avenza…
Quando il Nunzio Apostolico mi ha chiamato per comunicarmi che il Santo Padre mi aveva nominato Vescovo di Volterra, mercoledì 2 maggio 2007, ero parroco di Avenza da appena venti mesi, avevo già sessant’anni, pensavo di aver speso le mie risorse e quindi di chiudere lì il mio ministero, in una situazione ideale. La richiesta del vescovo Eugenio di andare ad Avenza, dopo che per nove anni ero stato rettore del seminario e per diciotto vicario generale, mi era giunta come una liberazione. Conoscevo abbastanza la parrocchia, era ben organizzata, contava sulla collaborazione di diverse persone, era molto ben strutturata, e questo mi permetteva di continuare il servizio al Liceo di Pontremoli senza sottrarre nulla alla parrocchia.
Come sono stati questi quattordici anni con la responsabilità di una Diocesi?
Non conoscevo Volterra se non per la fama a tutti nota, ma di fronte alla proposta del Nunzio, quasi una ingiunzione, ho lasciato tutto: ho preso i libri che avevo messo da parte per leggerli nella vecchiaia, e sono partito. Mi sono presentato in punta di piedi in una Diocesi di tradizione gloriosa per le vicende storiche, per la cultura e per la santità. Oltre ai papi San Lino e San Leone Magno, sono più di venti i santi volterrani.
Quali sono state le sensazioni di allora?
Sono andato a Volterra con il proposito di rendere un servizio, per ascoltare, per fare un tratto di strada insieme. Qualcuno mi chiese quale fosse il mio programma pastorale: mi è sembrata una domanda da azienda industriale che calcola la vendita di prodotti con statistiche e algoritmi. Non avevo progetti pastorali, perché sono convinto che il programma di tutta la Chiesa sia quello di vivere secondo lo spirito del vangelo con una grande apertura al soprannaturale e molto attenzione verso i fratelli.

Una diocesi nel cuore della Toscana…
La Diocesi di Volterra, nonostante diversi tagli per capricci politici, ha conservato la struttura originaria del quarto secolo. Il territorio si estende a raggiera tutt’attorno alla sede vescovile, che comprende le periferie di cinque province: Pisa, Siena, Grosseto oltre a Firenze e Livorno dove sono i centri maggiori. Gli abitanti non sono molti e un buon numero di paesi sono abbandonati, e in questo si assomiglia alla diocesi di Massa C.-Pontremoli, ma con la differenza che nel Volterrano si percorrono chilometri senza trovare una casa. Il rientrare di notte dopo una riunione e incontrare solo cinghiali non è piacevole.
Quanto pesa la difficoltà nel mantenere un rapporto diretto con la gente dei paesi?
Papa Francesco dice che il pastore deve sentire l’odore delle pecore: per fare questo bisogna camminare insieme, condividere la vita, partecipare a “gioie e dolori, fatiche e speranze”. Le immagini e i suoni con i mezzi moderni si possono trasmettere anche a distanza, ma l’odore e il profumo si sente solo in presenza. Il contatto umano è possibile solo nelle piccole realtà, e la vita di fede trova la sua culla ideale nelle piccole comunità più che nell’anonimato delle grandi strutture. Piccolo è bello, e nel piccolo è possibile creare relazioni di umanità, di vita sociale e di vita di fede. Faccio solo una semplice costatazione, senza la pretesa di rivendicazioni. Desidereremmo però avere maggiore considerazione nella mentalità dominante tutta protesa all’esaltazione dei grandi agglomerati.
Anche in Lunigiana molte comunità, un tempo vive e vitali, sono ridotte a poche persone. Un processo irreversibile?
L’invecchiamento della popolazione e l’abbandono dei paesi sono fenomeni comuni a tutta l’Italia. Siamo succubi dell’oscurantismo del pensiero dominante che considera la campagna il regno indisturbato degli animali selvatici, dove l’uomo è l’unico intruso. Qualche anno fa un politico venuto dalla città si rallegrava perché dopo i cinghiali erano tornati i lupi, e si augurava che tornassero anche gli orsi. Non è detto che la storia debba sempre continuare nell’esodo verso i grandi centri, io aspetto e mi auguro un ritorno nelle campagne, ma perché questo sia possibile, è necessario che siano garantiti i servizi essenziali minimi: strade, ospedali, scuole, servizi sociali, e attualmente la copertura internet.

Come sarà possibile garantire a tutti una vicinanza, la presenza di un sacerdote, la possibilità di “santificare la festa”?
Anche l’attività pastorale necessita di una revisione, obbligata. Eravamo abituati troppo bene con la presenza di un prete e una chiesa in ogni paese, ma non è sempre stato così. Per molti secoli la vita cristiana si è svolta attorno alle Pievi, che spesso erano in aperta campagna. Non mancavano allora i preti, e neppure i luoghi di culto, ma i servizi religiosi erano garantiti nella Pieve. Stiamo tornando a quei tempi. Non sarà più possibile dire: “Se mi sveglio vado alla Messa delle otto, altrimenti a mezzogiorno, oppure a quella della sera”, ma piuttosto: “A che ora c’è la Messa?”, “Ci sarà oggi la Messa?”, “Riuscirò a trovare una Messa? Come potrò santificare la festa senza la Messa?”. Si passerà dall’abbondanza alla penuria.
Quanto ne risentirà la vita cristiana?
Il Vangelo parla di sale, di lievito e di luce del mondo (Mt 5,13-14). Può darsi che perdendo un po’ di zavorra, la presenza cristiana nel mondo divenga più incisiva. È ammirevole lo sforzo dei nostri preti di non far mancare una celebrazione in ogni paese, ma non è più il tempo in cui il prete celebra la sua Messa contro un muro: per la celebrazione occorre un minimo di partecipazione, e le celebrazioni scialbe sono una delusione per il prete e una noia per i fedeli. Oggi abbiamo la comodità di spostamento e quando si è in auto non importa fare un chilometro in più. Le persone sono meno legate al proprio campanile e si recano dove trovano celebrazioni ben fatte, dove trovano un prete accogliente, dove trovano … il parcheggio.
Paolo Bissoli