Intervista a don Marino Navalesi, parroco di San Pietro in Avenza. Tutto è sospeso, in attesa che si possa tornare ad una “prossimità sociale” per il momento ancora preclusa
Don Marino Navalesi, parroco in San Pietro ad Avenza
Il tempo che precede la Pasqua, in alcune parrocchie, prima della pandemia, veniva dedicato alle benedizioni delle famiglie: una modalità per incontrare tante persone, per stabilire e rinnovare relazioni e gettare qualche seme evangelico.
Purtroppo tutto questo, per il momento, è sospeso, in attesa che si possa tornare ad una “prossimità sociale”, ora preclusa. Abbiamo incontrato don Marino Navalesi, a capo della parrocchia di S. Pietro in Avenza, una delle più popolose della diocesi, e condiviso con lui qualche riflessione.
Don Marino, la tua parrocchia conta oltre 11mila abitanti. Prima della pandemia la benedizione delle famiglie era un modo per incontrare le persone. C’è un po’ di nostalgia di quei momenti di incontro?
“Più che nostalgia direi rammarico: vengono a mancare opportunità di incontri che permettevano di entrare concretamente nelle famiglie e di condividere situazioni, spesso dolorose o di grave preoccupazione, ma anche momenti di gioia e di sereno confronto. In una comunità così popolosa e vasta la visita e la benedizione delle famiglie è un’occasione insostituibile nel rapporto tra parrocchia e territorio, favorendo non solo una conoscenza, ma soprattutto una vicinanza reciproca”.
Quanto tempo occorreva per benedire le famiglie della parrocchia?
“Per poter arrivare a tutti, in questi anni, è stato necessario partire equipaggiati con almeno quattro ministri (parroco, vicari parrocchiali e diaconi), accompagnati da collaboratori fidati e silenziosi. Una minuziosa visita, porta a porta, durava almeno 10 settimane, senza contare le industrie e le attività commerciali. Un calendario consegnato giorno per giorno con scrupolosità per permettere a tutti almeno di essere avvisati della visita”.
Come venivate accolti?
“In modi diversi, a seconda della zona, dell’età e della sensibilità: l’accoglienza era spesso cordiale e familiare, qualche volta fredda e forse un po’ compatita, pochissime volte respinta.
Difficilmente negli orari proposti riuscivi ad incontrare tutti e in modo particolare le famiglie giovani ed impegnate con il lavoro; qualcuno più accorto richiamava per concordare un momento successivo, ma era praticamente la fascia più anziana della popolazione che con tanti ricordi nel cuore ti attendeva con gioia.
Un rito semplice ma pur sempre un momento di preghiera (forse e purtroppo unico) con almeno una sosta cordiale non sulla porta, ma nella accoglienza della casa”.
Per quest’anno avete pensato a qualche forma alternativa?
“A partire dalle indicazioni dei vescovi, abbiamo pensato ad un segno di vicinanza, una bottiglietta con l’acqua benedetta da ritirarsi in chiesa assieme all’immancabile santino, con la variazione della preghiera nel retro, preparata per la celebrazione senza ministro, ma da vivere come preghiera della famiglia riunita”.
Come hanno reagito, l’anno scorso, le persone alla sospensione delle celebrazioni e alla rinuncia della benedizione?
“Con tanto impegno e l’aiuto in più di un caro amico sacerdote, lo scorso anno siamo riusciti a finire quanto programmato con le famiglie prima del lockdown. La mancanza delle celebrazioni è stato un momento faticoso per tutte le comunità, che sicuramente ha inciso sulla fede e nella vita delle persone. Tutti abbiamo provato solitudine nella mancanza dei momenti tradizionali di pietà e nella celebrazione della S. Messa; ci siamo attrezzati per la trasmissione delle celebrazioni, che è stata accolta con molto interesse, ma che fisicamente ci ha tenuti lontani.
Quante paure nelle fasce più deboli della popolazione e quante attenzioni ci vorranno ancora, quanto pensiero per il mondo del lavoro, ma forse qualcosa ci sfugge. C’è un detto che recita: ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’ che non sempre è vero, ma riferito ai tantissimi che oggi mancano alle celebrazioni e alla vita di fede, sicuramente mi interroga sul modo di proporre nuovamente l’invito ad una vita cristiana nelle famiglie”.
Tu, don Marino, hai provato sulla tua pelle gli effetti del Covid-19. Cosa ti ha insegnato quell’esperienza?
“Non è facilmente descrivibile in poche parole: ti ritrovi senza forze in ambienti stracolmi di solitudine e di sofferenza; non mi è mancata comunque la speranza e in modo particolare la preghiera e la vicinanza di tutti.
Ho imparato che davvero esistono persone capaci non solo di curarti il corpo, ma anche di consolarti l’anima e di farti sentire amato. Non scherziamo in questa situazione, non improvvisiamoci virologi nelle parole e nelle soluzioni a buon mercato, le nostre attenzioni valgono per la nostra salute e per la vita dell’altro”.