
Domenica 27 settembre – XXVI del tempo ordinario
(Ez 18,25-28; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32)
Permettermi di mostrarmi fragile, se sono figlio sì, anzi, è indispensabile. “Figlio vai a lavorare nella vigna”, che significato diamo a questo invito? Se rispondiamo da operai sicuramente vediamo in questo invito l’urgenza di costruire un modello funzionante. Di chiesa, di casa, di stato, di famiglia… poco importa di cosa ma un modello.
Lavorare nella vigna da operai è crescere una bella famiglia oppure essere il pastore di una parrocchia alla moda, capace di progetti pastorali invidiabili e di proposte culturali inarrivabili, di liturgie perfette, di visioni progressiste. Operai bellissimi e funzionali, riconosciuti e amati e stimati. Ma essere figli è un’altra cosa. È essere partoriti da un “no”. Il Signore ci vuole figli e non operai. E il figlio non deve dimostrare niente a nessuno, caso mai deve decidere di sé.
La vigna non è la chiesa o la parrocchia o la famiglia, ridurre la vigna a un ambito è ridurre l’uomo a un ruolo, la vigna della parabola non è altro che la nostra umanità. Il figlio torna nella vigna quando capisce che quel sì corrisponde al sì profondo, a quello che brucia in fondo al suo cuore, è il sì all’appello personalissimo di Dio. Si chiama vocazione ed è dei figli e non degli operai. È così infuocato quel nucleo incandescente posto al centro della mia vita che fa a pezzi tutte le riduzioni a ruolo, al primo figlio non importa nulla di essere riconosciuto, gli importa di rispondere a ciò che sente essere vero per lui, a ciò che lo umanizza, a ciò che gli permette di sentirsi figlio promettente della vita. Un sì che crea identità, di figlio. Serve tempo per rispondere, anche a quello serve il no. E serve di dare il giusto peso a ciò che la vita chiede. Non possiamo immaginare di vivere in un mondo senza attese, non possiamo far sparire ruoli ma siamo chiamati a dire dei no, costi quel che costi, quando ci accorgiamo che la nostra obbedienza è una maschera per trovare un posto nel mondo.
I pubblicani e le prostitute non passano davanti ai capi dei sacerdoti e ai pubblicani perché sono moralmente migliori, sono solo più fortunati, non devono nascondere niente, sono quello che appaiono.
Ognuno di noi deve avere almeno un luogo in cui può mettersi a nudo per quello che è, senza la paura di dover difendere niente, senza la paura di fingere, senza dover proteggere nessuno spazio di potere. Poter dire “non ho voglia” e poi ripensarci, mostrare i propri difetti e sapere che non saremo abbandonati, ma questo è possibile solo se vivo la vita non come obbedienza agli ordini di un capo ma come atto gratuito di risposta ad un amore che mi precede.
Se Dio è padre io rimango sempre figlio. E non devo più fingere perché so che sono suo sempre. E allora libero potrò dedicarmi a scoprire quale è il mio modo, unico e irripetibile, per dire di sì alla vita. E oserò anche ipotizzare di poter essere felice. Vero e felice e libero.
don Alessandro Deho’