
Le proposte di Vittorio Colao e gli incontri di Villa Pamphili voluti da Giuseppe Conte per la ripresa evidenziano la crisi della politica

Piano Colao e Stati generali sono i due tormentoni del panorama politico ed economico di queste settimane. Al documento con le 102 indicazioni per la ripresa economica dell’Italia, redatto da un gruppo di esperti selezionati dal governo e coordinato dal top manager Vittorio Colao, è subito seguito l’annuncio di una riunione di governo, parti sociali, istituzioni italiane ed europee – gli “stati generali dell’economia” – per orientare le politiche economiche e di bilancio dei prossimi mesi.
Le due iniziative fortemente volute dal Presidente del Consiglio si prestano a considerazioni su diversi piani: da quello istituzionale a quello politico e, infine, economico. Partiamo da quest’ultimo. La commissione guidata dall’ex amministratore delegato di Vodafone ha partorito un documento teso a raggiungere tre obiettivi unanimemente condivisibili: digitalizzazione e innovazione; rivoluzione verde; parità di genere e inclusione. Le 102 misure indirizzate a perseguire gli scopi, mostrano però diversi limiti. Il più importante è che non è quantificato il costo di nessuna misura; un elemento che tramuta il piano in una sorta di libro dei sogni, dal momento che le risorse sono, per definizione, scarse.

Ma gli elementi critici non si fermano qui. Il rinnovo dei contratti a tempo determinato in scadenza, almeno per tutto il 2020, senza causale, cioè la messa in quarantena del decreto Dignità e un’emersione del contante occultato e di “altri valori derivanti da redditi non dichiarati (anche connessa all’emersione del lavoro nero) a fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva” sdoganano da un lato una visione liberista del mercato del lavoro e dell’economia in generale, nonostante i fallimenti a cui si è assistito nell’ultimo ventennio; dall’altro perpetuano la logica del premiare i furbi a scapito degli onesti con un nuovo condono mascherato dal nome inglese di voluntary disclosure.

In generale, il documento riserva allo Stato un ruolo di regolatore e finanziatore, ma non una concreta capacità di intervento, aspetto che ha determinato, secondo alcune indiscrezioni, la mancata firma del documento da parte di un eminente membro della commissione, l’economista Mariana Mazzucato.
A livello politico, tuttavia, le due iniziative rappresentano la raffinata mossa di Giuseppe Conte per consolidare la sua posizione di capo del governo, nel momento in cui in molti, a partire dal mondo imprenditoriale (particolarmente aggressivo in queste settimane) e finanziario, vorrebbero personalità a loro più affini dell’avvocato pugliese a gestire i 172 miliardi di euro provenienti dall’Unione Europea e i 55 miliardi di deficit aggiuntivo.

Il Piano Colao permette a Conte, premier senza partito, di avere nelle proprie mani un pacchetto di proposte, elaborate da tecnici di fama, per trattare alla pari con Partito Democratico e Movimento 5 Stelle (entrambi freddi, per motivi diversi, rispetto al documento), sugli indirizzi da dare alla spesa pubblica e agli investimenti. Gli Stati generali, in corso in questi giorni, hanno permesso sin dalle prime battute di mostrare come Conte goda della fiducia di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale: lo scudo internazionale della “Troika”, utile a comunicare che le istituzioni internazionali non desiderano nuovi governi.
Anche sul piano interno, gli incontri di Villa Pamphili hanno avuto risvolti positivi per Conte: la pretestuosa fuga dell’opposizione nel momento in cui è necessario non dare voti, ma contributi di idee, ha smascherato la propaganda priva di contenuti di Salvini e Meloni e la vacuità del loro patriottismo, già mostrato con i voti contrari di Lega e Fratelli d’Italia ad Eurobond e Recovery Fund al Parlamento Europeo.
Sullo sfondo, tuttavia, l’inflazione di commissioni tecniche e vertici extraparlamentari pone un problema istituzionale di assoluto rilievo. Nelle democrazie liberali è il Parlamento il luogo del confronto: è lì che le forze politiche portano le proposte dei loro centri studi e le visioni dei loro intellettuali di riferimento e le sottopongono al confronto e al compromesso con quelle degli altri partiti.
Se il parlamentarismo – e con esso la democrazia – stanno soffrendo in tutto il mondo, in Italia la crisi dei partiti, che si riflette nella scarsa qualità dei loro eletti, accentua il problema. Conte ne sta traendo vantaggi (arriverà a dar vita a un proprio partito?), insinuandosi abilmente tra la vacuità della non-politica dei grillini e l’assenza di una linea politica dei democratici a 14 mesi dal loro ultimo congresso, ma la qualità della democrazia che ne emerge non è proprio delle migliori.
Davide Tondani