
Viaggio nella “triple frontera” dove il Coronavirus infierisce sulle popolazioni indigene
Il coronavirus si diffonde inesorabile fin tra le popolazioni indigene, particolarmente vulnerabili, della profonda Amazzonia e non fa sconti, né in termini di contagi né di vittime. Secondo la mappa quotidiana elaborata dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) – composta da 9 Paesi della regione: Brasile, Venezuela, Guyana francese, Guyana britannica, Suriname, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia – e dal Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia (Coica), al 21 maggio, 92.870 erano i contagiati e 5.346 i morti. Nel solo stato brasiliano di Amazonas, al 25 maggio erano oltre 29mila i casi confermati e 1.758 le morti, mentre secondo i dati del Coordinamento delle Organizzazioni indigene della valle amazzonica (Coica) nel compesso dell’area amazzonica il virus ha colpito 526 nativi di 33 differenti popoli e ne ha uccisi 113.
L’emergenza appare come una tragedia non solo in città come Manaus e Belém, in Brasile, o Iquitos in Perù, ma anche nel cuore della foresta. Per esempio, sulla cosiddetta “triple frontera”, dove, lungo il corso del Rio delle Amazzoni, si incontrano tre Paesi: il Brasile, il Perù e la Colombia; un luogo di commerci e scambi, dove le frontiere sono solo teoriche.
Il Sir racconta come si vive la pandemia in queste località, dove il virus è arrivato attraverso il grande fiume o per via aerea, dalle città sopra menzionate. A Tabatinga (Brasile), il vescovo dell’Alto Solimões, dom Adolfo Zon Pereira, da giorni analizza i dati dei sette municipi della sua immensa diocesi, vasta quanto il Norditalia ma popolata solo da 220mila abitanti. Impressionano, infatti, non tanto i numeri assoluti (2.130 positivi e 93 decessi, secondo i dati del 21 maggio), ma la percentuale in rapporto alla popolazione, con un tasso di positivi relativa allo 0,97% della popolazione (quasi il triplo dell’Italia). Non si deve dimenticare che i tamponi effettuati sono pochi e che la comunicazione con molti villaggi è precaria, quindi la situazione potrebbe essere anche peggiore.
Afferma il vescovo: “Nonostante i sindaci abbiano preso provvedimenti di distanziamento già il 19 marzo e le frontiere siano state chiuse, la pandemia avanza perché all’inizio le indicazioni non sono state prese sul serio. Due sacerdoti sono stati contagiati, per fortuna ne sono usciti. Ma i morti aumentano e il Comune ha dovuto allestire un nuovo cimitero, in un terreno messo a disposizione dalla diocesi”. La preoccupazione maggiore è per le popolazioni indigene: “La maggior parte dei contagiati e dei morti indigeni per coronavirus è nel nostro territorio”. Allarmanti anche le prospettive a livello economico: “Qui siamo in un luogo lontano, aiuti ne arrivano pochi e ci arrangiamo con la solidarietà tra di noi. Per fortuna, dopo una telefonata del nunzio, è arrivata una somma messa a disposizione dal Papa”.
“La fame non aspetta” è il titolo della campagna, collegata a quella della Caritas brasiliana: “Abbiamo chiesto sia donazioni in denaro che alimenti e generi di prima necessità, dice la responsabile della Pastorale sociale della diocesi, la missionaria laica marista argentina Verónica Rubí. Abbiamo trovato una generosità oltre le aspettative, abbiamo allestito 350 ceste di alimenti e le abbiamo distribuite. Ora le frontiere sono chiuse e i militari pattugliano il labile confine tra Tabatinga e Leticia (Colombia), dove i contagiati sono circa 1.500, con 47 morti.
“Ma la risposta non è militarizzare le frontiere – dice padre Alfredo Ferro, coordinatore del Servizio gesuita per la Panamazzonia -. Bisognerebbe, piuttosto, fare un vertice fra i tre Paesi per armonizzare le politiche perché se soffri la fame non stai in casa, ma esci a cercare cibo”.
E poi c’è l’economia in picchiata, con il turismo ridotto a zero. Padre Yilmer Alonso Pérez, responsabile della Pastorale sociale Caritas del vicariato apostolico di Leticia spiega che “qui c’è solo un ospedale, che è riuscito ad accogliere solo alcuni pazienti. Moltissimi sono in casa, in condizioni inadeguate. Mancano ambulanze e ventilatori”. La situazione in Perù è ancora più grave che in Colombia.
Nei pressi della “triple frontera” mancano centri di grosse dimensioni, ma il contagio si sta estendendo ai vari villaggi, come conferma padre César Luis Caro Puértolas, vicario generale del vicariato apostolico di San José del Amazonas, anch’esso grande come l’Italia del Nord, nell’area peruviana che confina con Brasile, Colombia ed Ecuador.
Qui il vescovo, mons. José Javier Travieso, è stato il primo in tutta l’America Latina a essere contagiato con il Covid-19 e ora è in convalescenza. “La situazione – ci riferisce – è molto complicata -. Ci sono già 36 morti, 287 casi confermati e 750 sospetti nei vari villaggi. La rete sanitaria, formata da due piccoli ospedali e da alcuni centri sanitari locali è del tutto inadeguata”. Il vicariato apostolico conta su un progetto finanziato da Misión América della Conferenza episcopale spagnola: un aiuto fondamentale, per una comunità che altrimenti, “rischia di essere completamente indifesa”.