
La pandemia, l’impegno di medici e infermieri, i timori per il domani. Questo dramma ci renderà migliori?
Scriveva Montaigne, citando Platone, che un medico, per essere tale, dovrebbe passare per tutte le malattie che richiedono un suo intervento. Purtroppo oggi del nuovo morbo si sa ben poco, ma il rapporto fra chi cura e chi ha bisogno di essere curato è sempre umanissimo.
L’empatia fra personale ospedaliero e malato è una delle poche certezze che ci rimangono. Medici e infermieri sono diventati nell’immaginario collettivo eroi o angeli. Il grazie è doveroso. Ma la riconoscenza sarà più completa se saremo capaci di immedesimarci in chi ogni giorno si trova di fronte alla sofferenza e alla morte. Il silenzio può farci entrare nei luoghi, case o ospedali, dove si combatte disperatamente contro il male. In quelle stanze si scrive ogni giorno un messaggio di forza e di abnegazione capace di dare senso anche ai nostri sacrifici e ai nostri disagi.
L’isolamento che ci viene imposto in queste settimane, è fatto anche di lunghi momenti di silenzio. Il silenzio, si sa, spesso è abitato da paure e angoscia: nel silenzio può crescere la rabbia e la disperazione. Costretti ad una traumatica rinuncia a progetti, abitudini, frequentazioni, viviamo una vita mutilata e spesso priva di prospettive. Se prima si poteva in qualche modo pensare il futuro, oggi si teme che il domani possa essere un lungo interminabile attraversamento del deserto verso una terra promessa irraggiungibile. L’incertezza è assoluta.
Le strade su cui si affacciano le nostre abitazioni sembrano un deserto esse stesse: strade già piene di vita, caotiche, rumorose. Un simbolo della modernità. In un attimo lo scenario è mutato: invece dell’assordante frastuono sale da esse un silenzio irreale. Siamo soli, senza le non sempre positive occasioni che prima ci aiutavano a scacciare fantasmi indesiderati. Oggi c’è un vuoto da riempire e ognuno deve ricorrere al fai-da-te. Non è consigliabile però vivere l’attesa di tempi migliori nella recriminazione, nella polemica, nella deprecabile ricerca di un capro espiatorio.
Le pagine manzoniane sulla peste e ancor più quelle sull’assalto ai forni ci avvertono quanto sia facile il dilagare dell’irrazionalità. Le difficoltà possono esacerbare l’animo e spingerlo alla ricerca di presunti colpevoli. Tuttavia nel silenzio, quando non prevalga la rabbia, è possibile continuare o riaprire il dialogo con il proprio io, in compagnia degli scrittori più amati. Ci si potrà riconoscere allora più uniti nel comune destino di fragilità, nel basso stato e frale che ci è stato dato in sorte. Leopardi ha scritto versi memorabili sul fetido orgoglio dell’uomo e sulla necessità di sentirsi umili e solidali.
Quante volte si è detto che al progresso meraviglioso della nostra civiltà non corrisponde una crescita del livello di umanità e di moralità. Siamo giustamente orgogliosi di un benessere mai visto, ma forse abbiamo dimenticato quanto sia precaria la nostra condizione. Basta un picciol pomo che, maturo, cada dall’albero per distruggere il formicaio costruito con grande fatica. Di fronte alla natura il formicaio umano corre costantemente il pericolo di essere travolto.
Oggi il leopardiano pomo è addirittura la banale gocciolina (droplet) che esce dalla bocca dell’uomo per colpire il vicino, il coniuge, l’amico. Questo dramma ci renderà migliori? Nel silenzio parla un passo del manzoniano Fermo e Lucia: “Questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte: e quei che rimangono, son più tristi, più agresti, più guasti di prima”.
Lo scampato pericolo non renderà nessuno migliore se non si avvia già ora un processo interiore di separazione dell’essenziale dall’effimero. E ciò che è fondamentale per una vita dignitosa è la riscoperta dell’umiltà e della fragilità. La lezione che esce dai luoghi di sofferenza ci aiuterà ad essere come la leopardiana Ginestra contenta dei deserti, simbolo di resistenza al male e promessa di una confederazione umana dove si porga e si riceva aiuto nelle angosce della guerra comune.
Pierangelo Lecchini