Medici in prima linea, protagonisti della Resistenza

Nel 75.mo anniversario della Liberazione un ricordo di Carlo Uggeri, Umberto Capiferri e Mario Benelli

L’ospedale dei partigiani ad Albareto
L’ospedale dei partigiani ad Albareto

Il 75° anniversario della Resistenza, della fine della seconda guerra mondiale e della Liberazione dal nazifascismo dovrà essere ricordato senza iniziative pubbliche, manifestazioni e cortei. Per la prima volta dal 1945: lo impone l’emergenza sanitaria. Tuttavia questo non deve impedire di dedicare momenti di riflessione legati a quei venti, lunghi mesi di occupazione che coinvolsero così tragicamente anche la Lunigiana, ultimo territorio dell’Italia centrale ad essere liberato, il 27 aprile 1945. Non mancheranno le possibilità offerte da giornali, radio, tv e social media per condividere, anche se da lontano, questo grande momento di rinascita democratica che fu, ed è, il giorno della Liberazione.
L’emergenza sanitaria globale di queste settimane offre lo spunto per ricordare come, in quei mesi di settantacinque anni fa, ci furono medici e infermieri che parteciparono attivamente alla Resistenza prestando la propria opera di cura e assistenza sia all’interno delle formazioni partigiane, sia continuando il proprio lavoro di medico condotto o negli ospedali ma accorrendo ogni volta che c’era bisogno a curare i feriti.
L’organizzazione di una rete di servizi sanitari che supportasse l’azione dei partigiani fu uno dei problemi più complessi da affrontare: si doveva agire in clandestinità e si poteva contare su una limitata disponibilità di medici, sia per il numero di quanti erano disposti a rischiare ogni giorno la vita per aiutare la Resistenza, sia per il tempo che questi potevano dedicarvi.
Per buona parte del 1944 quello dell’assistenza medica rimase un aspetto risolto soprattutto grazie alla buona volontà dei singoli. Solo nella seconda parte dell’anno, con l’aumento del numero dei partigiani, un maggior controllo del territorio e la chiara percezione che vincere la guerra fosse ormai solo questione di tempo, prese vita una rete organizzata che poteva contare anche su alcuni presidi con organici di medici e infermieri nelle zone operative.
Tra gli ospedali per i partigiani attivi all’inizio del 1945 si possono ricordare quello di Albareto in Val Taro, dove era stato trasferito l’ospedale di Borgotaro, quello di Villagrossa in val di Vara (non lontano da Calice al Cornoviglio) e anche quelli, più piccoli, di Oradoro (non lontano da Torpiana di Sesta Godano) e del Cerro di Montereggio.

Lalla Tassi, staffetta partigiana:
“A piedi, con i farmaci nascosti nello zaino”

Nella rete clandestina di assistenza sanitaria ai partigiani un ruolo insostituibile lo ebbero le staffette, spesso giovani donne alle quali erano affidati incarichi di responsabilità che le esponevano a grandi rischi visto che di frequente erano fermate e perquisite dalle pattuglie tedesche.
Lo ricorda bene Graziella “Lalla” Tassi, figlia e sorella di partigiani, inviata spesso in missione tra la Valdantena – dove era sfollata con la mamma – Succisa e il guinadese. Più volte scese a Pontremoli per ritirare piccole scorte di farmaci, ma così preziose per chi era impegnato nella lotta in montagna.
Alla farmacia di Ottorino Buttini, membro del CLN e futuro primo sindaco della città, Lalla si riforniva di quanto poteva darle: chinino, tintura di iodio, garze… Il tutto finiva nello zainetto, nascosto sotto qualche capo di vestiario. “Sono per gli sfollati della Valdantena” avrebbe detto in caso di controllo lungo i tanti chilometri che avrebbe percorso a piedi per risalire da Pontremoli fino a Casalina.

In Alta Lunigiana uno dei primi interventi clandestini di medici risale al 15 marzo 1944, quando a Succisa i fascisti della X Mas tesero un’imboscata ai partigiani del “Picelli”: nello scontro morirono il comandante Fermo Ognibene e due fedelissimi: il sardo Isidoro Frigau e il pontremolese Remo Moscatelli. Tra i patrioti ci furono anche due feriti, Antonio Pocaterra e Gino Fontanesi, soccorsi dal parroco don Quinto Barbieri con l’aiuto di alcune donne del paese. Il secondo, diciottenne di Sant’Ilario d’Enza, venne ferito in modo molto grave: le prime cure gli furono prestate dal dott. Pio Bertolini, ma la convalescenza in una famiglia fidata del paese non fu positiva. La cancrena alla gamba ferita portò alla decisione di rischiare il tutto per tutto: presi accordi con il dott. Carlo Uggeri, primario chirurgo all’ospedale di Pontremoli, questi accorse a Succisa e, visitato il ferito, decise per il ricovero nottetempo del giovane al quale fu costretto ad amputare l’arto.
Proprio Uggeri, da quel momento in poi, sarebbe stato in prima linea nell’assistenza e nella cura dei partigiani, coadiuvato da un giovane medico pontremolese che si sarebbe poi distinto nella sua attività pluridecennale a favore della comunità locale: il dott. Mario Benelli. Ma quel primo intervento fu anche la premessa dell’entrata in clandestinità dello stesso Uggeri: pochi giorni dopo il fatto i fascisti, forse avvisati da qualche collaborazionista, fecero irruzione nell’ospedale per arrestarlo, ma il primario riuscì a calarsi da una finestra e a nascondersi a Pracchiola. Tornò in ospedale solo dopo qualche tempo e, sempre supportato da Mario Benelli, riprese ad assistere i partigiani accorrendo di persona nei luoghi più diversi fino a quando, ormai sotto stretta sorveglianza, dovette lasciare l’ospedale per la clandestinità prima a Dozzano poi a Coloretta, organizzando in entrambi i paesi posti di pronto soccorso, con i pochissimi mezzi a disposizione.
Il 4 agosto, mentre i mortai tedeschi bombardavano Chiesa di Rossano e i tedeschi appiccavano il fuoco ai paesi della vallata, Uggeri era in prima linea (qualcuno assicura che, per l’occasione, avesse anche imbracciato il mitra) per mettere in salvo i partigiani ricoverati nell’ospedale nel Palazzo degli Schiavi che proprio in quell’occasione venne raso al suolo. Uggeri conobbe il carcere qualche mese dopo, quando lo zerasco fu investito dal rastrellamento del 21 gennaio 1945: aiutato da un giovane Giuseppe Quiligotti, studente di Medicina, si prodigava per curare i partigiani con ferite da armi da fuoco o gli arti congelati per le notti trascorse nel gelo di uno degli inverni più freddi del secolo.
Catturato e imprigionato a Pontremoli, senza essere riconosciuto, venne liberato dopo dieci giorni grazie all’intervento del vescovo Sismondo. Si trasferì allora definitivamente nell’ospedale di Albareto e tornò a Pontremoli proprio nelle ore della Liberazione. Dopo la guerra diventò primario di chirurgia nell’ospedale di Tortona.
Al fianco di Uggeri ci fu anche un altro medico che avrebbe trascorso lunghi mesi al fianco dei partigiani: il dott. Umberto Capiferri di Filattiera (nome di battaglia “Kok”), classe 1914 che compare nell’elenco del Servizio Sanitario del Comando della Divisione Liguria, operante tra lo Zerasco, la Lunigiana centrale e la Val di Vara. Il suo primo intervento chirurgico è testimoniato nel maggio 1944 nella zona del passo dei Casoni dove, all’aperto e riparato dall’ombra di una quercia secolare, opera il partigiano Cirillo Palladini salvandogli la vita. Il 4 agosto, sotto le granate tedesche, fu al fianco di Uggeri per mettere in salvo i partigiani ricoverati nell’ospedale di Chiesa di Rossano.
Nei mesi successivi prestò la propria opera nello ospedale di Oradoro fino alla fine di febbraio 1945, quando una grave malattia lo costrinse a passare la linea del fronte per ricoverarsi in ospedale. A Liberazione avvenuta, il 19 maggio 1945, il CLN lo nominò sindaco di Filattiera, carica che ricoprì fino a settembre per poi svolgere la professione medica alla Spezia. Solo tra Pontremoli e Zeri i partigiani caduti sono stati almeno un centinaio, molti di più i feriti: è stato anche grazie al lavoro di chi volontariamente è rimasto in prima linea prestandosi all’assistenza sanitaria, rischiando la vita ogni giorno, che tanti hanno avuto salva la vita. Paolo Bissoli