Piegati in ginocchio

13editorialeUna riflessione su questo stato di emergenza. Noi siamo animali sociali, pertanto la situazione che stiamo vivendo può diventare abbastanza difficile da sostenere. In questo momento l’emozione primaria di difesa prevalente è la paura. Di per sé è un ottimo meccanismo di difesa dinnanzi al pericolo, ma nel caso del coronavirus non sappiamo da dove viene e chi lo può trasmettere e ciò fa si che dalla paura si passi all’angoscia e all’angoscia di morte.
L’angoscia di morte è uscita dal segreto della stanza d’ospedale ed ha invaso le strade, le città, le vite. Da fatto individuale è diventata fatto collettivo. Non risparmia nessuno, neppure i calciatori famosi. Il virus che circola maligno è capace di contagiare chiunque, generando una paura comune e profonda, l’angoscia della morte, la più ancestrale insieme a quella dell’abbandono. E chi muore per il virus muore solo.
Tutti a casa a tempo indeterminato. Economia in frantumi. Povertà alle porte. Si è dato il via agli esorcismi mediatici di influencer, politici, Vip di turno. La gente sui balconi a cantare slogan autorassicuranti e canzoni riscritte o rivisitate. La paura dilaga. La scienza è impotente. I messaggi caricati di avvertenze ossessivamente ripetute.
Nella camera dove il paziente contagiato e intubato muore, c’è il dolore più grande e nascosto dell’umanità, quello del povero, solitamente realtà estranea e marginale del vivere comune, oggi possibile e alla portata di tutti. Certo, alla portata di tutti, perché il povero, prima di morire, è uno che ha piegato le ginocchia e questa è l’occasione che abbiamo. Solo quando dolore e gioia si chiamano vicendevolmente si ha l’esperienza intelligente dell’umano (la madre che partorisce ne è l’esempio più sublime).
Nelle case si sta assieme passando la giornata, nelle città qualcuno prova a trasgredire per sentirsi vivo ed allontanare l’incubo, ma in tutto questo c’è chi indica una strada di speranza autentica, empatica, profonda: l’infermiera che si piega sull’anziana morente e le porge il cellulare per l’ultimo saluto al figlio; l’operaio che si fa a piedi chilometri di strada per andare a lavorare; il ragazzo casinista della classe che segue con fatica e rigore la lezione on-line; il medico sfinito sulla sedia d’ospedale.
Per tutti lo stare al proprio posto e ritrovare i confini della propria mattonella. Questo è il momento di piegare le ginocchia per pregare, assistere il malato, accogliere il povero, che riesci a vedere se sei come lui. Una esplosione d’intelligenza d’amore che collega il dolore alla gioia (l’anziano che muore solo, da vero povero Cristo portatore di un residuo di speranza autentica).
E i bambini per ora i più lontani dalla possibilità di ammalarsi, ma sul piano emotivo i più esposti. Sentono lo smarrimento dei genitori che devono raccontare loro la verità con il linguaggio del bambino, ma la verità. Vanno tutelati, ascoltati prima di addormentarsi, resi capaci di vivere la loro quotidianità in spazi fisici più ristretti e ancor più di prima, tenerli insieme ai nonni, portatori del racconto immaginifico-metaforico attraverso le loro storie di vita.
Dobbiamo un po’ tutti recuperare il significato del silenzio, capace di ripulire l’animo dalle incrostazioni di una vita definita e progettata nei particolari; dobbiamo contenere i nostri sfoghi rabbiosi che nascono dalle frustrazioni di un Sé ipertrofico ed esigente; sono le opportunità offerte da questo tempo per chi si piega in ginocchio. Non è poco, pensiamoci. Può essere molto, anzi tutto.

Piervittorio Giorcelli
psicologo-psicoterapeuta