La grama e breve vita del mezzadro e della sua famiglia

11 novembre: quando, fra drammi e speranze, San Martino era il giorno nel quale si cambiava il podere. Anche in Lunigiana contratti capestro regolati da consuetudini. A fine Ottocento gli scritti di denuncia dei giovani “della spartana” sul periodico “La Terra”. E spesso si emigra per non morire di fame

Angiolo Tommasi, “Le ultime vangate” (1892)
Angiolo Tommasi, “Le ultime vangate” (1892)

All’inizio di novembre, terminata la semina, si concludeva l’anno del mezzadro: se il contratto non era stato rinnovato l’unica soluzione era raccogliere le proprie cose per andare, con la famiglia, in un altro podere. Questa regola ,“fare San Martino”, fissava nell’11 novembre la data del trasferimento e dell’arrivo del nuovo nucleo familiare. Ancora negli anni Settanta, quelli della definitiva crisi dell’agricoltura tradizionale, esistevano nel nostro territorio contadini che coltivavano la terra con il contratto di mezzadria, anche se erano ormai “residenti” nel podere stesso.
San Martino era dunque giorno drammatico di delusione e dolore per la famiglia che doveva andarsene e di fragile speranza per coloro che ne prendevano il posto.

Jean Francois Millet "Angelus" (1858)
Jean Francois Millet “Angelus” (1858)

E il mezzadro che entra nel podere si deve mettere subito all’opera perché deve ricavare il massimo dal terreno se vuole rispettare il contratto e magari restituire il prestito che ha dovuto chiedere per “scalare” la graduatoria dei candidati nelle preferenze del padrone. E spesso deve anche porre rimedio all’incuria nella quale chi è stato appena cacciato ha lasciato il podere stesso. Una vita durissima: d’inverno le giornate sono corte e si lavora almeno dieci ore al giorno, ma dalla primavera il lavoro si protrae anche per quindici ore.
Luigi Campolonghi (1876-1944), nel suo “Pontremoli. Una cittadina italiana tra l’80 e il ‘900”, ci ha lasciato numerosi riferimenti alla mezzadria che, ancora a cavallo tra XIX e XX secolo, si fondava sulla forte domanda di terra da parte di famiglie numerose e nel ristretto numero di possidenti con a disposizione ampie proprietà. E che si potevano così permettere di scegliere il mezzadro puntando ad ottenere il massimo possibile viste le condizioni di bisogno del contadino.
Il giovane socialista faceva parte del gruppo “della spartana” che rivendicava – tra le altre – la necessità della divisione dei beni, delle proprietà e dunque della ricchezza. Gruppo che curava l’edizione del giornale “La Terra” nel quale esprimeva e spiegava idee e principi. Campolonghi racconta le accese discussioni con l’on. Camillo Cimati lungo il tratto di strada per Scorcetoli, località dove entrambi erano diretti da Pontremoli: il primo a piedi, sotto il sole, il secondo sul calesse. Cimati non mancava mai di fermarsi per dare un passaggio al giovane socialista.
“Il brav’uomo – scrive Campolonghi – cominciava a dirmi che, lasciando stare la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio delle terre, che era un’utopia, noi avevamo ragione quasi su tutti i punti, ma che i più restii ad ogni miglioramento immediato erano proprio i contadini, i mezzadri”. La premessa è dunque chiara: le condizioni dei mezzadri e delle loro famiglie sono misere, ma per colpa loro che non vogliono migliorarle.
Campolonghi fa ribadire a Cimati il concetto: “Le piccole migliorie che voi domandante e che non costerebbero nulla il concedere i mezzadri non le vogliono. Per esempio voi dite che le case dei contadini sono tuguri senza finestre, e questo è vero. Ma sa lei che quando ho parlato di finestre con i vetri ai miei mezzadri, questi si sono messi a ridere come se li pigliassi in giro?”.
C’è poi il tema delle “onoranze”, cioè quei “regali” che il mezzadro e la propria famiglia sono di fatto obbligati a portare al padrone in alcune occasioni dell’anno (come il Natale): non sono stabilite dal contratto, bensì fissate dalla consuetudine: polli, uova e perfino le lumache: “non le pare umiliante – chiede Campolonghi – che essi debbano anche trascinarsi lungo le siepi bagnate per ore e ore per poterle far dono di qualche dozzina di chiocciole?”.
E via di seguito con altri esempi, utili per ricordare come anche Cimati – nei confronti del quale aveva comunque un giudizio non negativo ritenendolo un brav’uomo – “riprendeva a proposito di queste e di altre questioni la tesi, familiare a tutti gli oppressori, della incapacità degli oppressi a progredire”.
Dalla lettura degli articoli pubblicati su “La Terra” emerge chiaro – seppure con una descrizione di parte – il quadro di una realtà agraria immutata da secoli e regolata più da consuetudini che da leggi. “È noto – si legge nel numero del gennaio 1898 – che in Lunigiana non esiste una categoria di contadini salariati, come nell’Emilia, nel Mantovano, nel Polesine ecc. E ciò perché, presso di noi, sono sempre in vigore forme medioevali di produzione agraria e nulla accenna ancora al formarsi della grande industria”.

Adolfo Tommasi, "La raccolta delle olive" (1894)
Adolfo Tommasi, “La raccolta delle olive” (1894)

Dunque i giovani “della spartana” intendono condividere con i propri lettori un dato che arriva con forza dai territori vicini: la crisi del mondo agricolo nelle sue forme ereditate dai secoli precedenti che, se non saprà rinnovarsi in fretta, sarà in gran parte spazzato via.
“Presso di noi i contadini sono mezzadri o piccoli proprietari […] Sappiamo che le antiche forme produttive, come appunto la piccola proprietà e la mezzadria, essendo contrarie agli interessi della coltura e dello sviluppo umano non possono resistere all’irrompere della grande industria e vanno scomparendo in una proporzione che, per certi regioni, secondo la statistica è del 13% per i piccoli proprietari e del 31% per i mezzadri”.
Il modello della mezzadria e dei piccoli proprietari non è dunque in grado di resistere o, come sostenevano i proprietari terrieri, di essere la soluzione alla crisi economica; secondo “La Terra’ esso però è “la rocca di difesa contro la marea delle idee nuove”.
Mezzadria e piccola proprietà che, in quello scorcio di fine secolo erano “ben lungi dal presentare quelle condizioni di relativo benessere tanto decantate dagli economisti della borghesia”. Le abitazioni dei mezzadri, spesso con famiglie numerosissime perché funzionali alla ricerca della massima produzione possibile della terra, vengono descritte sul giornale socialista come “squallide stamberghe dove manca la luce e penetra il vento, dove le stanze piccole, luride, antigieniche conoscono la promiscuità delle età e dei sessi”.
La vita è dura, il frutto del lavoro nei campi incerto e il risultato spesso avaro: conseguenze che anche nel nostro comprensorio portano “ogni anno all’emigrazione patria il contributo sempre crescente della loro miseria e della loro fame”.

Adolfo Tommasi, "Emigranti" (1896)
Adolfo Tommasi, “Emigranti” (1896)

Una situazione non dissimile da quella di altri territori dell’Appennino o delle Alpi come è facile verificare leggendo saggi anche di diverso orientamento politico. “Anche nella nostra Lunigiana – si legge ancora – ci sono dei paesi dove si muore di fame cronica, ove si muore di stenti di privazione; ci sono villaggi interi che ci presentano il quadro desolante della degenerazione fisica,[…] di donne che passano senza giovinezza e senza fascini, di fanciulli linfatici, anemici scrofolosi che a 15 anni ne dimostrano appena 10”.
Per tornare ai giorni di San Martino, “Quando un mezzadro desidera di essere collocato in un podere infila la vecchia giacca di fustagno, lega per la zampa un paio di galletti più o meno arguti e va a far visita al padrone […] Il padrone prende i capponi, li affida alle materne cure della serva, inforca gli occhiali e incomincia a contrattare”.
Una contrattazione senza regole visto che nel Pontremolese “manca qualsiasi forma di patto colonico”; sono dunque le leggi della consuetudine a governare la trattativa, ma la consuetudine è… “di gomma elastica”! Così il padrone per collocare il podere tanto desiderato dal contadino può arrivare a chiedere il pagamento di una somma anche di “50 o 60 lire”.
Denaro che il mezzadro ovviamente non possiede peché “povero, misero, senza risorsa” e deve ricorrere al prestito. Ed è lo stesso padrone a prestargli il denaro: “a suo tempo si ricorderà di questa generosità”!

Paolo Bissoli