Pechino e l’inquietante storia di una crescita senza democrazia
In Cina la Repubblica Popolare ha celebrato i 70 anni dalla sua nascita. Maria Luisa Simoncelli, su queste colonne, ha ben tratteggiato il profilo storico di un paese, erede di una cultura e una civiltà antichissime ed espressione del più longevo regime comunista e totalitario ad oggi esistente. Celebrare l’anniversario dell’ascesa di Mao obbliga però ad un supplemento di riflessione sul presente e sul futuro di un paese che, con i suoi 1,4 miliardi di abitanti, sta marciando verso il primato economico mondiale e la conseguente messa in discussione del plurisecolare dominio dell’Occidente negli affari e nel commercio.
La storica decisione di avviare la Cina sulla strada del capitalismo fu presa da Deng Xiaoping, allora segretario generale del Partito comunista, nel 1979: 40 anni fa, dopo che i primi 30 anni della Repubblica Popolare furono dal punto di vista economico un disastro. Ancora agli inizi degli anni ’80 il 90% dei cinesi, secondo la Banca Mondiale, viveva con meno di 1,90 dollari al giorno, soglia convenzionalmente assunta per misurare i poveri nel mondo.
A partire dal gennaio 1979, il sistema agricolo comunale fu gradualmente smantellato e i contadini iniziarono ad avere più libertà nel gestire la terra coltivata e vendere i loro prodotti sul mercato. Il passaggio dalla collettivizzazione alla liberalizzazione fu successivamente adottato anche nei settori industriali. Iniziò la politica delle “porte aperte” rispetto al commercio internazionale, favorendo l’insediamento di imprese straniere nelle quattro “Zone economiche speciali” (Shenzhen, Zhuhai, Shantou e Xiamen), strategicamente individuate ai confini con Hong Kong, Macao e Taiwan, con un regime fiscale molto favorevole e bassi salari per attirare capitali stranieri.
Quella inaugurata da Deng Xiaoping fu un’altra rivoluzione per la Cina comunista e maoista, ma segnata da proclami di ben altro tenore: “arricchirsi è glorioso” fu il più famoso di questi. La borghesia, nemico da combattere di ogni comunismo, divenne il fulcro dello sviluppo cinese. Ma al contrario di certa apologia anarco-capitalista, che esclude qualsiasi intervento pubblico in economia, l’impressionante sviluppo cinese fu, ed è ancora, pianificato nei dettagli dal partito-Stato.
In quel 1979, davanti al Comitato centrale del partito comunista Deng affermò: “Sotto la guida del Comitato centrale del Partito e del Consiglio di Stato avanziamo con coraggio per cambiare l’arretratezza del nostro Paese e trasformarlo in uno Stato socialista moderno e potente”. Era l’inizio del socialismo di mercato, un ossimoro entrato nella Costituzione nel 1992 che ha rappresentato il sentiero su cui la Cina ha camminato anche sotto la guida di Jiang Zemin, che aprì le porte del partito agli imprenditori e privatizzò larga parte delle imprese pubbliche, e di Hu Jintao, che negli anni 2000 confermò l’opposizione cinese ad un capitalismo senza guida del Partito e traghettò nel 2001 Pechino nella Organizzazione Mondiale del Commercio.
Un “impero” che vale il 18% del Pil del mondo
La Cina di oggi, guidata dal leader a tempo indeterminato Xi Jinping, rappresenta il 18% del Pil mondiale (era il 2% prima di Deng Xiaoping) e il suo interscambio commerciale con l’estero è cresciuto dal 2 al 38% del reddito nazionale. Dati che hanno avuto un evidente impatto sociale: in 40 anni l’aspettativa di vita è passata da 66 a 76 anni e la popolazione alfabetizzata è cresciuta dal 65% al 96%.
L’impetuosa crescita senza democrazia della Cina fa emergere un duplice paradosso. Sul fronte interno, sotto l’egida di Xi Jinping, il regime cinese ha imposto un’autorità di ferro alla più numerosa popolazione mondiale, ogni velleità di opposizione è stata cancellata, il culto della personalità di Xi non è dissimile da quello maoista, ma nonostante ciò tanti cinesi sono convinti che il loro tenore di vita sia migliorato e che il prestigio della Cina sia cresciuto, come ha fatto notare il giornalista francese Pierre Haski in un articolo tradotto su Internazionale lo scorso ottobre.
Sul fronte esterno, se il Pil cinese supererà quello statunitense, come prevedono gli esperti, per la prima volta da più di un secolo un Paese non democratico sarà la prima economia del mondo e, forte di quel primato, potrà definire, influenzare, soffocare valori come le libere elezioni, la libertà di espressione, il pluralismo delle idee. Già oggi la performance economica cinese e il suo impatto sulla popolazione si è mostrato ben superiore a quello di Paesi in forte ascesa come l’India, che partiva da simili condizioni di partenza ma con un regime in corso di democratizzazione.
Mentre il caso cinese mette in crisi mezzo secolo di letteratura economica tesa a dimostrare l’inscindibile nesso tra democrazia e crescita economica, i gruppi economici del nuovo Celeste impero controllano la Syngenta, grande azienda svizzera di pesticidi; il porto del Pireo, il più grande della Grecia; la centrale nucleare britannica Hinkley Point C; quote consistenti di aeroporti come Heathrow a Londra, Hahn a Francoforte e Tolosa. Con la Belt and road initiative, conosciuta anche come “nuova via della seta”, Pechino sta costruendo ponti, ferrovie e porti in Asia e Africa orientale, in una sorta di neocolonialismo che non chiede alcuna adesione formale ai principi del socialismo cinese.
Con lo stesso programma cerca partnership in una Europa confusa tra la fedeltà all’alleanza politico-strategica con gli Stati Uniti e il desiderio di non farsi scappare affari profittevoli con il gigante asiatico. In totale l’iniziativa di Xi potrebbe costare mille miliardi di dollari di investimenti, una somma sette volte più grande del piano Marshall, che gli Stati Uniti lanciarono nel 1947 spendendo 130 miliardi di dollari, in valuta odierna, per ricostruire l’Europa del dopoguerra: l’ascesa cinese non è un’ipotesi futura, ma la realtà di oggi.
(Davide Tondani)