
Studiare i classici greci e latini è alimentare sogni e speranze contro pulsioni autodistruttive. Ma oggi c’è poco interesse per il fermento che viene dalla cultura che dà identità
La civiltà dell’Occidente è una delle grandi elaborazioni culturali dell’umanità, non è l’unica ma è quella che tuttora ci appartiene e che ci dà identità. I suoi pilastri sono la classicità e il messaggio cristiano. Il pensiero e l’arte degli antichi sono detti classici perché sono sempre attuali, parlano e possono guidare ognuno di noi contemporaneo.
I Greci, discesi dai Balcani in varie ondate a partire dal II millennio a.C., hanno una chiara coscienza della propria personalità ma capiscono che per essere felici hanno bisogno di ospitare e dialogare con gli altri. Le guide ideali dell’uomo greco sono il vero, il bello, il bene; è un uomo che sente di appartenere a un grande tutto che è la natura, ha rispetto degli altri nei loro diritti e con essi collabora. Tutta la civiltà classica è ricchissima di virtù civili e sociali. Studiare i classici greci e latini non è imbottirsi di erudizione, è trovare l’alimento indispensabile di sogni e speranze contro pulsioni autodistruttive che inducano ragazze giovanissime come l’olandese Noa a lasciarsi morire perchè non sentono più nessuno e niente che faccia loro amare la vita.
Purtroppo oggi c’è poco interesse per il fermento che viene dalla cultura che dà identità, molto poco per la poesia e gli effetti nefasti sono l’essere precipitati rapidamente in un degrado morale e in una superficialità che rivela assenza di pensiero, di conoscenza, di uso competente ed educato del linguaggio. Si sta perdendo la complessità, non si fanno ragionamenti ma cinguettii.
Dicevano gli antichi che la poesia è scala a Dio, questo verso di Montale fa capire che la poesia dà dignità alla vita, educa la sensibilità, fa superare ogni giorno i limiti che la vita ci pone, come la “siepe” leopardiana fa naufragare nell’immensità dell’infinito con la dolcezza del caro immaginar. La lezione degli antichi ci aiuta a dare risposta al fenomeno dell’emigrazione, sempre presente nella storia degli uomini e oggi avvertito con paura senza trovare risposte culturali e regole politiche per governarlo.
L’ospitalità, l’accoglienza sono valori profondi in tante opere letterarie. Nell’Odissea Nausicaa dalle candide braccia accoglie il naufrago Ulisse coperto di salso, orribile e lo veste, offre cibo e bevande e lo porta alla corte di suo padre. Nell’Eneide Virgilio fa arrivare a Cartagine, colonia fenicia in costruzione, il troiano Enea naufrago, la regina Didone gli dice ospite, sciogli le preoccupazioni. La città è vostra, metti all’ancora le navi. Il vocabolo greco “csénos” significa ospite.
Nel libro VIII delle Metamorfosi Ovidio descrive il delizioso mito di Filemone e Bauci, è una storia di accoglienza commovente in cui si può rintracciare qualcosa dell’ospitalità che ancora qualche decennio fa veniva offerta anche nelle nostre campagne ai girovaghi e agli sfollati durante le guerre. L’annuncio evangelico è venuto a sublimare il valore dell’accoglienza, in prospettiva di trascendenza Gesù è padre e tutti gli uomini sono figli chiamati ad amarsi e ad aiutarsi. Esemplare la parabola del Samaritano, un forestiero che si cura dell’ebreo aggredito dai ladroni. Il cristiano che porta il Vangelo nel suo vissuto quotidiano è chiamato al dovere di praticare le sette opere di misericordia: è bene elencarle: accogliere i forestieri, dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire i nudi, vistare i carcerati, curare gli ammalati, seppellire i morti. La civiltà dell’Occidente nelle sue radici classiche e fortemente cristiane non dovrebbe chiudere frontiere e porti e innalzare muri.
I flussi migratori attuali hanno cause lontane – dal colonialismo e dalle deportazioni schiaviste con le quali dal Cinquecento in poi l’Europa si è fatta ricca rapinando oro, argento e materie prime necessarie alla produzione industriale – e cause recentissime di “un’economia diventata disumana e predatoria” (papa Francesco), che distrugge il pianeta e arricchisce mostruosamente pochissimi e fa morire moltissime persone per fame e guerre. Si sono rotti equilibri e c’è difficoltà di integrazione: forniti di propria identità culturale è possibile il dialogo rispettoso con altre culture, altrimenti è guerra.
Nel mito di Filemone e Bauci una storia di ospitalità
con ricetta di dieta mediterraneaOvidio racconta il tenero amore dei due sposi invecchiati insieme, poveri vivono sereni in una capanna, ospitano un giorno due in forma umana ma sono Zeus ed Ermes. Bauci li invita ad “accomodarsi su una panca dove ha steso con premura un ruvido panno, ravviva il fuoco con quel poco fiato che aveva. Prepara per loro un pasto (è la dieta mediterranea). Fa il minestrone con fagioli e verdure miste, condito con un pezzo sottile di lardo: il nostro battuto (“pistadina”) di lardo e erbe aromatiche. Intanto i due vecchietti conversano con gli ospiti di cui non conoscono l’identità, offrono acqua tiepida per ristorare i piedi, stendono l’unica tovaglia logora usata solo per le feste su un tavolo a tre piedi, di cui uno è più corto e lo pareggiano con un coccio, puliscono con un ciuffo di menta verde, mettono olive verdi e nere, corniole autunnali aromatizzate con salsa di vino, indivia, radicchio, una forma di latte cagliato e uova girate leggermente nel tepore della cenere. Servono il tutto in terrine, i bicchieri sono di faggio intagliato. Si mesce vino (certo non d’annata) e poi la frutta: noci, fichi secchi, datteri grinzosi, prugne, mele profumate e grappoli d’uva. A tutto si accompagnano facce buone, sollecitudine sincera e generosa”.
Maria Luisa Simoncelli