
In Romania venti anni dopo Giovanni Paolo II e a trenta dalla caduta del muro di Berlino. La richiesta di perdono alla comunità Rom
“Chiedo perdono – in nome della Chiesa al Signore e a voi – per quanto, nel corso della storia, vi abbiamo discriminato, maltrattato o guardato in maniera sbagliata”: è lo storico “mea culpa”, rivolto ai rom, con cui si è concluso il 30° viaggio internazionale di Papa Francesco in Romania, a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino e 20 anni dopo la visita del primo papa – San Giovanni Paolo II – in un Paese a maggioranza ortodossa.
In Romania – 20 milioni di persone di cui l’80% ortodossi – il cattolicesimo è religione di minoranza (7% dei fedeli), ma respira a due polmoni, con la Chiesa di rito latino e quella di rito greco. Non era mai accaduto prima che un pontefice chiedesse perdono per la comunità rom, incontrata a Blaj, durante l’ultima tappa del viaggio, nella nuova chiesa dedicata a S. Andrea Apostolo e al Beato Ioan Suciu, nel quartiere Barbu Lăutaru: “Non siamo fino in fondo cristiani, e nemmeno umani, se non sappiamo vedere la persona prima delle sue azioni, prima dei nostri giudizi e pregiudizi… è nell’indifferenza che si alimentano pregiudizi e si fomentano rancori”. E aggiunge: “Quante volte giudichiamo in modo avventato, con parole che feriscono, con atteggiamenti che seminano odio e creano distanze! Quando qualcuno viene lasciato indietro, la famiglia umana non cammina”.

“Non lasciamoci trascinare dai livori che ci covano dentro: niente rancori”, la proposta: “Perché nessun male sistema un altro male, nessuna vendetta soddisfa un’ingiustizia, nessun risentimento fa bene al cuore, nessuna chiusura avvicina”.
Lungo la storia, l’umanità si trova sempre di fronte a un bivio: scegliere tra Caino e Abele, tra la “cultura dell’odio” e la fraternità, tra l’alzare trincee e il costruire strade, ha detto Francesco nelle altre tappe del viaggio, che annovera tra le istantanee da conservare il Padre Nostro recitato fianco a fianco al patriarca Daniel – singolarmente ma in una liturgia comune, prima in latino e poi in romeno – e la beatificazione di sette vescovi martiri greco-cattolici vittime del regime comunista.
Senza dimenticare la folla di 100mila persone, in maggioranza di origine ungherese, che hanno sfidato il fango e la pioggia pur di assistere alla Messa celebrata dal primo papa a raggiungere la Transilvania, nel santuario mariano di Sumuleu-Ciuc. Poche ore prima, presiedendo la Divina Liturgia nel Campo della Libertà di Blaj, pur senza usare la parola “comunismo”, il Papa ha fatto riferimento ai 50 anni di dittatura a cui è stata sottoposta la Romania.

E lo ha fatto proprio nello stesso luogo dove tanti greco-cattolici furono perseguitati o uccisi nel 1948 per aver rifiutato di entrare a far parte della Chiesa ortodossa. Tra di loro, anche i sette vescovi martiri che ha beatificato, tutti perseguitati e incarcerati dal “regime dittatoriale e ateo”. “Continuare a lottare, come questi Beati, contro queste nuove ideologie che sorgono”, la consegna al popolo romeno. “Anche oggi riappaiono nuove ideologie che, in maniera sottile, cercano di imporsi e di sradicare la nostra gente dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose”.
“Quanto più una società si prende a cuore la sorte dei più svantaggiati, tanto più può dirsi veramente civile”, il tema del primo discorso di Francesco, rivolto da Bucarest alle autorità. “Abbiamo bisogno di aiutarci a non cedere alle seduzioni di una ‘cultura dell’odio’ e individualista – l’appello lanciato durante l’incontro con il Sinodo permanente della Chiesa ortodossa romena – che, forse non più ideologica come ai tempi della persecuzione ateista, è tuttavia più suadente e non meno materialista”.
E la “cultura dell’incontro”, oltre che la cifra dell’ecumenismo, è anche la parola-chiave della Messa nella cattedrale cattolica di San Giuseppe, sull’esempio di Maria e delle “tante donne, madri e nonne di queste terre che, con sacrificio e nascondimento, abnegazione e impegno, plasmano il presente e tessono i sogni del domani”.
“Non lasciamoci rubare la fraternità dalle voci e dalle ferite che alimentano la divisione e la frammentazione”, dice il Papa dal Santuario mariano di Sumuleu-Ciuc. “Il maligno divide, disperde, separa e crea discordia, semina diffidenza”, il monito durante l’incontro con i giovani e le famiglie, a Iasi: “Noi apparteniamo gli uni agli altri e la felicità personale passa dal rendere felici gli altri. Tutto il resto sono favole”. “Il peggio viene quando vediamo più trincee che strade”, il grido d’allarme di Francesco. M. Michela Nicolais – Agensir