
Domenica 5 maggio. III di Pasqua
(At 5,27-32.40-41; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19)
Il Maestro è risorto, Maria Maddalena gli ha parlato, e molti discepoli, compreso Tommaso, lo hanno visto; Pietro ha visto il sepolcro vuoto, e questo gli è bastato per credere: a differenza di Tommaso, non ha bisogno di vedere di nuovo Gesù per credere nella sua resurrezione. E probabilmente è convinto di non meritarsi di vederlo di nuovo, non dopo averlo rinnegato per paura mentre ancora il Maestro stava venendo processato.
E mentre i discepoli sono ancora storditi dall’evento, lui, uomo pratico, dice con semplicità: “Io vado a pescare”. In questa affermazione sono concentrati due sentimenti, uno sbagliato e uno giusto, come i due modi di interpretare l’affermazione, corretta, che “la vita continua”.
Quello sbagliato è il sentimento che il tempo passato con Gesù sia finito, e che è ora che ciascuno torni a fare quello che faceva prima. Un errore innocente, dettato anche dalle circostanze personali di Pietro, ma che molti compiono anche oggi, quando trattiamo l’incontro con Gesù come una questione limitata nel tempo, che non cambia le nostre vite al di fuori del momento della messa. Ma insieme a questo errore, che sarà l’ultimo che Pietro farà, c’è un sentimento giusto, quello che, per quanto molto, tutto, sia cambiato, ciò non è una scusa per non compiere il proprio lavoro.
Gesù non può essere una giustificazione per la pigrizia, anche gli antichi monaci conciliarono preghiera e lavoro, nel famoso motto “Ora et Labora”. Alcuni tra i discepoli seguono Pietro sulla barca, come facevano in passato, prima dell’incontro con il Maestro, e passano la notte al largo, ma senza trovare pesci.
Quando ormai è l’alba, e stanno tornando indietro stanchi e scoraggiati, notano una figura sulla riva. È ancora troppo buio, e sono troppo lontani per riconoscerlo, ma l’uomo gli grida: “Non avete nulla da mangiare?” Alla loro risposta negativa, lo sconosciuto dice: “ Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete.” Qualcuno dei pescatori ha un bizzarro senso di deja-vu, ma gettano la rete, e immediatamente sentono che si è riempita di pesci, così tanti che quasi non riescono a tirarla in barca.
A quel punto Giovanni dice quello che tutti quanti hanno già capito, ma che nessuno ha il coraggio di dire: “È il Signore!” e Pietro, senza neanche pensarci, si getta in acqua e fa a nuoto i cento metri che lo separano dalla riva. Lui, che credeva ma non sperava di vedere mai più il Maestro, giunto a riva trova un fuoco di brace, e del pane. Gesù invita lui e gli altri a mangiare insieme a lui. Pietro non se lo fa dire due volte, e porta a terra la rete con centocinquantatre pesci.
È un pasto felice, ma silenzioso: nessuno osa aprire bocca, per paura che un qualche incantesimo si spezzi e il Maestro scompaia. Finito di mangiare, Gesù chiede: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” e Pietro risponde: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene.” Altre due volte Gesù ripete la domanda, e altre due volte Pietro risponde affermativamente. Per tre volte conferma il suo amore per Gesù, dopo le tre volte in cui lo aveva rinnegato.
E Gesù, proprio a lui, a questo rozzo pescatore che aveva ceduto in un momento di vergognosa debolezza, darà il compito di guidare i discepoli dopo la sua ascensione: “Pascola le mie pecore, pasci i miei agnelli”.
Non è un onore, è un compito che, Gesù lo sa già, Pietro eseguirà al meglio delle sue capacità, senza tirarsi indietro nemmeno davanti al martirio: “quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi.”
Tutti noi siamo Pietro, con la nostra fragilità, i nostri difetti, la nostra ignoranza. E Gesù non esige da noi la perfezione, anche se cercarla non fa male. Quello che vuole è tutto nell’ordine che dà a Pietro finita la sua profezia: “Seguimi”. Nostro compito è seguire Gesù, senza cadere nella disperazione se perdiamo la strada, restando consapevoli che possiamo sempre ritrovarla, e che anche se non commettiamo errori, non per questo siamo più meritevoli di chi sbaglia e se ne pente.
Pierantonio e Davide Furfori