Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore

Domenica 3 giugno, Santissimo Corpo e Sangue di Cristo
(Es 24,3-8;  Eb 9,11-15;  Mc 14,12-16.22-26)

22vangeloGesù entra in Gerusalemme, in preparazione alla Pasqua. I discepoli si prodigano per preparare un luogo dove celebrare l’importante cena pasquale: per il popolo ebraico, la Pasqua, o Pesach, ancora adesso ricorda l’ultima cena degli Israeliti prima della fuga dall’Egitto, nella notte in cui l’Angelo del Signore scese a sterminare i primogeniti degli Egiziani, risparmiando solo le case segnate con il sangue di agnello, e passando oltre (da cui ‘Pesach’, che significa proprio ‘passare oltre’).
Gesù dà ai discepoli indicazioni precise: “vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: ‘Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?’. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi”. I discepoli vanno, incontrano l’uomo e trovano la sala, così come il Maestro aveva detto. I Vangeli non ci dicono altro su questo personaggio, che ha preparato la stanza per l’ultima cena di Gesù, e si sono fatte infinite ipotesi sulla sua identità e le sue motivazioni: da un discepolo in segreto a un membro di una setta ebraica simpatizzante con Gesù.
Ma forse si tratta solo di un generoso ospite, la cui casa accoglie chiunque voglia celebrare la Pasqua. Non c’è bisogno di un motivo per accogliere qualcuno, di motivi c’è bisogno per non farlo: diffidenza, paura, insicurezza. Gesù e i discepoli cenano e celebrano ritualmente la Pasqua.
Durante la cena, all’improvviso i discepoli vedono il Maestro prendere il pane, spezzarlo e distribuirlo a ciascuno. Spezzare il pane equivaleva, nella gestualità allora vigente, a donare interamente se stessi, a suddividersi per gli altri in una generosa oblazione disinteressata. Ripartire il pane significava comunicare il proprio amore, la cui massima espressione sarebbe stata il sacrificio.
E Gesù in effetti in quel gesto singolare allusivo fa dono di sè, offre la propria vita e inequivocabilmente si auto-consegna per la salvezza dei suoi e di tutti. Poi dice: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prende un calice e ne fa bere a tutti, dicendo “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.” Qui Gesù sottolinea non soltanto che il vino in esso contenuto è veramente il suo Sangue, ma che esso viene versato per il nostro riscatto, che questo Sangue espia i nostri peccati e ci riabilita davanti a Dio.
Bevendo il sangue di Cristo, si diviene con Dio, in Cristo, per lo Spirito Santo, una sola vita, una sola volontà, un solo pensiero, un solo desiderio di salvezza e di redenzione.
L’amore del Padre deve divenire amore del cristiano. “Fate questo in memoria di me” è l’invito a protrarre nel tempo questo stesso Sacrificio sul pane e sul vino in modo tale che Gesù possa essere presente costantemente in ciascuno di noi, fino alla sua venuta nel tempo finale, quando il tempo giungerà all’epilogo definitivo.
Questo gesto, ripetuto ogni domenica, in ogni chiesa, è uno dei meno compresi dalla società laica. Per il cattolico, la Comunione con Dio non è un memoriale, una ‘recita’ con cui si ricorda l’ultima cena di Gesù Cristo. Nell’ostia e nel vino consacrati è realmente presente Gesù, e quindi Dio, e accogliendolo in sé si diventa tutt’uno con Lui.

Pierantonio e Davide Furfori