
Continua lo svuotamento istituzionale del territorio a favore delle “aree vaste”. La nostra Provincia verrà accorpata con Pisa e Lucca e le nostre aziende rischiano di contare sempre di meno

I nodi del lungo percorso di riforma delle Camere di Commercio sono arrivati al pettine e i disegni di riforma teorizzati al Ministero dello Sviluppo Economico fanno ora i conti con le incongruenze dell’applicazione sui territori. A partire da Massa-Carrara, provincia piccola (poco più di 27 mila attività iscritte nel Registro delle Imprese), che verrà accorpata a Pisa e Lucca, rispettivamente 52 e 51 mila imprese censite. Dati che non solo ritraggono un sistema economico, ma che pesano negli assetti di comando della futura Camera interprovinciale. Perché il consiglio camerale, dove si prendono decisioni rilevanti per il sistema economico del territorio coinvolto, viene votato dalle associazioni di categoria delle imprese.

E i territori e le categorie con più imprese conteranno di più. Un concetto spiegato senza giri di parole dal presidente della Camera di Commercio di Massa Carrara, Dino Sodini, nel corso di una conferenza stampa tenutasi pochi giorni fa: “Ci saranno 30 consiglieri, che poi diverranno 20. Se non ci faranno la cortesia di riservarci dei posti, c’è il rischio di rimanere senza rappresentanti. Questo è il frutto della norma che punta alla razionalizzazione, ma che non tiene conto della territorialità. Marmo e porto potrebbero essere discussi da altri”. Motivo per cui Sodini ha annunciato un ricorso al Tar. Non il primo, sul territorio nazionale, a seguito di una decisione presa a suo tempo dal governo Renzi e che ha creato scontento in tutta la Penisola a fronte di obiettivi non del tutto chiari: alla riduzione dei tributi camerali (in media 60 euro l’anno di risparmio per ogni impresa) e a risparmi ridotti e contraddittori, fanno da contraltare la scomparsa dei sostegni all’internazionalizzazione delle piccole e medie aziende, delle garanzie prestate per l’accesso al credito tramite il sistema Confidi, del finanziamento per la partecipazione a fiere, destinando agli enti camerali soprattutto competenze amministrative.

La riforma, ufficializzata da un decreto legislativo del 2016 in attuazione della riforma Madia della Pubblica Amministrazione e resa operativa dal ministro Calenda nell’agosto scorso, che ha pure subito uno stop della Corte Costituzionale per il mancato ascolto delle Regioni, prevedeva il passaggio da 105 (una per provincia) a 60 Camere di Commercio. Soglia per evitare la “fusione”: 75 mila imprese. In Toscana solo Firenze superava questo limite. Nelle altre province i “matrimoni forzati” hanno determinato la creazione di tre grandi Camere. Un processo che si inserisce nel solco dell’organizzazione dei territori in aree vaste. La Toscana in questo è stata maestra. Aziende sanitarie locali, Ambiti territoriali di rifiuti, acqua, servizi di bonifica, trasporto pubblico locale: tutto è stato accorpato in aree interprovinciali. Adesso tocca alla Camera di Commercio, mentre le Province sono state completamente svuotate di poteri e di risorse economiche (in previsione di una abolizione costituzionale superficialmente data per scontata e al contrario sonoramente bocciata nel dicembre 2016). Il tutto, dopo un periodo in cui Firenze ha sostenuto con forza pure la necessità di accorpamento dei piccoli comuni, frenata solo dagli incerti equilibri politici formatisi in Consiglio Regionale, e dopo che anche la promozione turistica, un tempo di competenza provinciale, è stata avocata a sé dalla Regione. Se a ciò si aggiungono le tendenze del sistema economico, a partire dal settore creditizio, in cui si è assistito all’entrata delle casse di risparmio locali nell’orbita dei grandi gruppi bancari nazionali – CR Carrara è per esempio entrata nel gruppo Ca.ri.ge. – se ne deduce una sola lezione: realtà territoriali periferiche, come quella apuana e lunigianese, sono ormai marginali nel contesto regionale, con tutto ciò che ne consegue in termini di servizi ai cittadini e opportunità di sviluppo. (Davide Tondani)