
Repubblica Democratica del Congo: una situazione critica che interpella tutti. Una guerra che dura dal 1998 e ha già provocato più di 4 milioni di morti. Un Paese in emergenza umanitaria ricco di materie prime, dove mancano le infrastrutture e sono molto presenti le imprese minerarie straniere e non poche multinazionali
In un mondo “distratto” come quello in cui viviamo forse ha destato sorpresa il fatto che Papa Francesco, nell’invitare a partecipare alla giornata di preghiera e di digiuno per la pace abbia richiamato l’attenzione sull’Africa e soprattutto sugli stati della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan.
Il fatto è che il dramma di quei Paesi ha superato da tempo la soglia di sopportabilità. E soprattutto nel Congo vi sono molte responsabilità dei popoli sviluppati, quelli che dovrebbero aiutare il mondo dell’emigrazione e della fuga dalla guerra e dalla fame “a casa loro”.
Il Congo è un Paese ricco di materie prime. Ha una delle più grandi foreste del mondo; ha l’acqua e quindi l’agricoltura potrebbe offrire grandi margini di sopravvivenza; il suo sottosuolo è ricco di minerali di vario tipo. Ma mancano le infrastrutture e sono molto presenti le imprese minerarie straniere e non poche multinazionali che operano anche col benestare dei governi delle nazioni di origine.
C’è il sospetto – in realtà più che un sospetto – che gli interessi economici e finanziari giochino un ruolo significativo nel fomentare un clima di instabilità e di guerra nel Paese. A destabilizzare tutto sono soprattutto i conflitti in certe zone dove operano più di cento gruppi armati per contendersi il controllo del territorio e, quindi, delle risorse minerarie.
La situazione giova sicuramente all’industria bellica e ai suoi mercanti d’armi. Ma giova anche ai governi di Rwanda e Uganda che, con la complicità del governo di Kinshasa, si accaparrano quote consistenti della ricchezza prodotta.
Nella confusione totale che vi regna hanno buon gioco le multinazionali che operano, a livello mondiale, nel settore dei cellulari e dei computer: il coltan è uno dei componenti fondamentali dei cellulari ed è un metallo più prezioso dei diamanti; l’80% della produzione mondiale proviene dal Congo.
Quella che poteva essere una ricchezza per il Paese è diventata la sua dannazione. Le vittime di questa guerra, che dura dal 1998, hanno già superato i 4 milioni di morti. Ma si parla, oggi, di 13 milioni di persone che rischiano di morire per carenza di cibo.
L’Onu dice che sono necessari un miliardo di dollari per far fronte all’emergenza umanitaria della nazione più ricca dell’Africa.
Il popolo, stanco delle conseguenze di due decenni di guerra, aveva sperato in elezioni democratiche e in un nuovo presidente. Quello attuale, Joseph Kabila, aveva chiuso il suo secondo mandato nel dicembre 2016 e non poteva più essere eletto. C’era un accordo, con la mediazione della Conferenza Episcopale del Congo, per indire elezioni democratiche entro la fine del 2017 e favorire così un’alternanza pacifica ma il governo si è guardato bene dal metterlo in pratica.
Di fronte a un atteggiamento che ha tutta l’aria di una presa in giro, la Chiesa cattolica ha continuato a cercare un dialogo tra le parti perché si prendesse coscienza della crisi e perché si riportasse la democrazia in Congo. In questi ultimi mesi essa sta guidando una protesta pacifica, organizzando manifestazioni e marce per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale.
I vescovi hanno chiesto senza equivoci ai congolesi di “sbarrare la strada” a coloro che vogliono confiscare il potere ed hanno organizzato marce pacifiche di laici cattolici. La risposta del governo è stata la repressione con sparatorie su persone inermi, “armate” di rami di palme, di vangeli, crocifissi, rosari. Tutto questo è avvenuto soprattutto nel mese di gennaio.
Le forze dell’ordine non hanno risparmiato neppure le celebrazioni religiose. Il bilancio è stato di numerosi morti, feriti e arrestati. Vari religiosi sono stati incarcerati. I rapporti tra la Chiesa cattolica e il governo sono diventati estremamente tesi. Tuttavia, nonostante la repressione, essa continuerà a cercare di tenere viva la possibilità del rispetto dei patti.
Le marce continueranno poiché sono l’unica forma di protesta, anche se debole di fronte alla macchina governativa, per poter sperare che qualcosa cambi. Si può sottolineare anche l’ambiguità di un governo così sensibile e pronto a reprimere manifestazioni pacifiche e così incapace e inutile nel fronteggiare i fronti di guerriglia che seminano morte e producono miseria.
Ma c’è anche il silenzio, interessato, del mondo di fronte alla tragedia di un popolo. Per questo è opportuno l’invito del Papa.
Giovanni Barbieri