
Sono a rischio i tanti riferimenti che fanno di un luogo una comunità

In questa Europa che vede nemici dappertutto, è necessario coltivare il patrimonio di tutto ciò che ci richiama al senso dell’appartenenza ad un territorio, ad una cultura, ad un modo di vivere, a comuni conoscenze ed esperienze. Tutto questo viene sintetizzato in una sola espressione: memoria collettiva di una comunità, piccola o grande che sia. Abbiamo mutuato il concetto da una recente dichiarazione dello storico Thomas Maissen, direttore dell’Istituto storico germanico di Parigi, ma, dopo aver ascoltato la brillante lezione tenuta dal prof. Luciano Bertocchi all’Università del tempo libero di Fivizzano, ci sentiamo di affermare che nella memoria collettiva un posto fondamentale deve essere riservato alla lingua dialettale. La premessa ci serve soltanto per andare alla ricerca di ciò che possa rappresentare la memoria collettiva dei fivizzanesi, anche se, nell’opinione di molti, dire “fivizzanesi” è un po’ azzardato ed improprio, dovendosi parlare, piuttosto, di Gragnolesi, Monzonesi, Moncigolesi, Sassalbini… avendo ciascun paese la “sua” memoria.

A Fivizzano, ad esempio, ma solo di Fivizzano capoluogo, numerosi sono i devoti alla Madonna di Reggio o della Ghiara, che, insieme a quelli della città emiliana, si ritrovano, annualmente dal 2001, anche al Passo del Cerreto, dove, quell’anno, venne eretta una maestà in pietra arenaria di Pognana raffigurante la Madonna, con ai lati gli stemmi dei due Comuni. Per il resto, ogni paese celebra la festa, in modo più o meno sentito, del proprio patrono. In quanti si sono ricordati che il 24 novembre è una delle due date dedicate a San Prospero, patrono di Monzone? Si può, comunque, ancora affermare che Fivizzano è il comune dei quasi 100 campanili, accomunati non da un santo, ma dalla fede cristiana nei santi. Ed è la fede cristiana che segna i momenti fondamentali della vita di quasi tutte le persone: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio – in gran parte soppiantato dalla convivenza -, ordine, eventualmente, anche se al momento non si ha notizia dell’esistenza di un seminarista.

Si può, inoltre, riconoscere il senso dell’appartenenza negli stili di vita? Forse in certi tipi di cibo, meglio nelle abitudini alimentari, o nel gioco, ma il riferimento può essere a pratiche che non vanno indietro nel tempo più di un secolo. La “passione per il pallone”, ad esempio, molto diffusa un po’ ovunque (se ne è avuta la riprova domenica scorsa in occasione del derby Monzone –Fivizzano) non supera i 100 anni. Chi sente più parlare del lancio della “forma di formaggio”, della “palla al balzo”, della “morra”? Anche alcuni avvenimenti – eccidi compresi – tengono uniti tutti nella memoria, non lo fanno, però, nel giudizio storico. C’è un legame col proprio territorio frutto della conoscenza dei luoghi con i loro toponimi? Proviamo ad interrogare qualche giovane! Il paesaggio, tuttavia, e la conoscenza del passato ci rendono eredi e portatori, più o meno consapevoli, di una cultura impregnata di particolari forme e modi di vivere, di sentire, di lavorare, di creare opere, che sono appartenuti a chi ci ha preceduto: sentieri, ponti, maestà, rogazioni, chiese, oratori, uliveti – ancora ben curati -, castagneti – generalmente, oggi, lasciati a se stessi -, cave, quarzo, marmo, arenaria, mezzadria, animali da cortile e da stalla (quanti quadri di quella vita in “Ma’ecchia” di Corrado Leoni), carbonare, libro, stampa, il “ciùf-ciùf” dei

pendolari, le migrazioni in Italia e fuori, le medicine naturali, l’ospedale, il dialetto, i graticci, castelli, borghi, laghetti per la canapa, la teleferica del Balzone, ma anche i “fili” per calare la legna o i carrelli del quarzo. E, poi, il senso del dovere, la capacità di stare insieme e di sodalizzare. E, ancora, i grandi personaggi e le loro opere. Insomma le campane non scandiscono più i tempi del lavoro, del riposo, del pasto, come non si sente più la sirena della segheria di Monzone. Il “mondo” è cambiato, alcune cose sono rimaste, altre, le più numerose, sono state superate dal “progresso”. Sicuramente la vita paesana è stata destrutturata negli ultimi decenni. Giustamente il prof. Mario Nobili fa spesso osservare che una poesia come “Il sabato del villaggio” oggi Giacomo Leopardi non avrebbe potuto scriverla. Ma senza quei riferimenti, si corre il rischio di chi una mattina si sveglia e non riconosce più né gli oggetti né chi gli sta intorno, finendo completamente disorientato. Quelle, ma se ne potrebbero aggiungere altre, sono le radici, che è doveroso conservare e a cui bisogna voler bene.

Per questo sono importanti i musei: quello del Lavoro, che ha la sua naturale collocazione a Monzone, in quanto conserva i simboli dell’identità di una vallata, in un particolare periodo storico, che non può essere mescolato con altri; quello della Stampa, quello di Arte sacra, il patrimonio librario, il mulino di Arlia, la Tecchia di Equi…. “Registrando questo passato, la memoria dà forma all’identità collettiva e diventa stimolo per aprirsi al mondo, non per alzare barriere o per creare un proprio orticello”, secondo Maissen. Diversa l’analisi dello storico Francesco Perfetti in merito all’Italia, “la cui storia, fatta di continue faide – personali, cittadine, regionali, religiose, politiche -, le ha impedito di costruire e mantenere il senso di identità nazionale. Ma la storia si addice anche alle comunità più piccole. È propria degli Italiani, infatti, la tendenza naturale all’individualismo, parente stretto dell’anarchismo”. Le vicende dei nostri tempi sembrano dare ragione, ad ogni livello, allo storico italiano. La speranza, invece, guarda a Maissen. Andreino Fabiani